Dall’austerità alla crescita la vera battaglia

di Marco Fortis
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Mercoledì 8 Luglio 2015, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 00:09
Tra il 2001 e il 2009, in tempi di “vacche grasse”, il comportamento delle banche prestatrici tedesche e francesi verso la Grecia è stato irresponsabile?



Questo è ormai un dato acquisito (quando il debito pubblico di Atene fu fatto salire senza che nessuno si indignasse, nemmeno la Bundesbank). Che di questo non si sia tenuto adeguatamente conto nella ricerca di una soluzione ragionevole alla crisi di Atene è un altro dato di fatto, così come è stato devastante il lungo muro contro muro inconcludente delle trattative di questi mesiche Tsipras ha abilmente sfruttato a suo favore con la mossa del referendum. D’altra parte, non vi è dubbio che la stessa politica economica europea sia da cambiare, spostando il baricentro dell’impegno della Commissione UE e dei Governi nazionali che “pesano” in Europa (Germania in primis) dall’austerità come dogma assoluto verso la crescita e la solidarietà nelle riforme e per gli investimenti.



Sono anni che lo scriviamo su questo giornale e il Governo italiano è oggi attivamente impegnato in questa direzione, pur con la dovuta cautela che deve avere un Paese vulnerabile come il nostro (che è già stato “castigato” dai mercati nel 2011). Questa linea di cambiamento, su cui si stanno muovendo Renzi e Padoan, andrebbe incoraggiata in Italia da tutti, nel nostro interesse nazionale. E meriterebbe di essere maggiormente ascoltata, in quanto costruttivamente innovativa, in una Europa a prevalente leadership tedesco-francese che, come ha sottolineato ieri Virman Cusenza, non si sta rivelando assolutamente all’altezza del compito.



Ma che il cambiamento della politica economica dell’Ue debba avere il “caso greco” come paradigma di svolta, come sostengono i populisti, è un errore fondamentale, che non servirà sicuramente a convincere la Germania e i Paesi del Nord Europa sul fatto che sia necessario modificare radicalmente registro in economia. “Salvare la Grecia”, a questo punto, è una questione politica in nome del progetto comune europeo, per evitare una uscita della Grecia dall'euro, e/o di soccorso “umanitario” alla popolazione greca più vulnerabile.



Non un “diritto acquisito” che Atene può legittimamente pretendere non si sa bene su quali basi (visto che molti altri Paesi dell’Ue hanno un reddito pro capite più basso dei greci stessi persino post-austerità). “Salvare la Grecia” quindi è una cosa. “Cambiare l’Europa” è tutta un’altra questione. Anzi, è la questione di fondo. Vediamo di capire perché. In Grecia ha vinto il “no” di Tsipras ma il Paese ha da tempo perso sul campo la sua partita e non certo per colpa dell’Euro-burocrazia: l’ha persa sulle baby pensioni, sul sommerso, sull’evasione fiscale e sulla corruzione. Senza avere a fronte di tutto ciò una economia, e soprattutto un’industria, forti, con uno squilibrio di bilancia commerciale con l’estero (come abbiamo spiegato alcuni giorni fa) che non ha eguali non solo nell’Unione europea.



E per di più senza un progetto serio per modificare questo fallimentare stato di cose. Adesso, pur con tutta la nostra simpatia per i Greci più in difficoltà, Atene non può pretendere che il suo “modello” sia esportato in Europa. Non soltanto oltre le Alpi, dove ciò appare quasi una bestemmia, ma nemmeno in Italia, in Spagna o in Portogallo, tutti Paesi che stanno cercando di fare riforme che i Greci non hanno mai nemmeno immaginato di portare avanti.



Soltanto tra il 2006 e il 2009 la spesa pubblica corrente esclusi gli interessi è cresciuta in Grecia in valore assoluto di 24,2 miliardi di euro, cioè un aumento di 2.162 euro per abitante. Nello stesso periodo in Portogallo, un Paese povero come la Grecia, tale spesa è aumentata di 975 euro pro capite, cioè meno della metà, mentre in Paesi ricchi come l’Italia è cresciuta di 1.176 euro e in Germania di 1.069 euro, cioè circa la metà che in Grecia. È dunque chiaro che prima della crisi i Greci stessero abituandosi a vivere nettamente al di sopra delle loro possibilità, con un aumento della spesa pubblica (a prescindere dagli interessi da pagare ai creditori) del tutto insostenibile. Nel 2014, dopo l’austerità, la spesa pubblica corrente della Grecia esclusi gli interessi è ridiscesa più o meno ai livelli del 2006, cioè prima che scoppiasse la corsa folle del debito.



Oggi tale spesa per abitante in Grecia è tornata a 6.651 euro per abitante, solo di un pelo inferiore a quella del Portogallo, che è di 6.769 euro per abitante. Coloro che cavalcano la tesi di una Grecia “alla fame” dovrebbero spiegarci perché i portoghesi non dicano altrettanto. C’è poi la questione del debito pubblico. Come spiega l’ultimo “Rapporto sulla stabilità finanziaria” della Banca d’Italia, nel 2015 il debito pubblico greco è stimato in circa il 173% del Pil, è finanziato per l’81,5% da creditori stranieri e soltanto per il 19,5% dai Greci stessi. In altri termini, il debito pubblico estero della Grecia è uguale al 140,8% del PIL: un caso unico nel mondo avanzato, essendo il debito pubblico estero del Portogallo di gran lunga inferiore, pari al 90,7% del PIL, mentre quello irlandese è il 67% e quello italiano è solo il 48,2%, persino inferiore a quello francese (59,4%) e appena poco più alto di quello tedesco (42,4%).



Cifre, queste, sui cui certi populisti nostrani dovrebbero riflettere prima di affermare irresponsabilmente che l’Italia sarà la prossima a fallire dopo la Grecia, dando all’estero una immagine che il nostro Paese non merita assolutamente. Gli italiani finanziano da soli il proprio debito pubblico per l’85,6% del Pil (ovvero in misura uguale al 46,4% della ricchezza finanziaria netta delle famiglie). La Grecia, al contrario, se anche soltanto finanziasse con creditori stranieri il suo debito pubblico nella stessa misura del Portogallo (90,7% del Pil), dovrebbe comunque coprire con proprie risorse interne un debito pubblico pari all’82% del suo PIL (o all’87% della ricchezza finanziaria netta delle proprie famiglie). Ma tutto ciò non dipende dalla cattiveria dei creditori esteri bensì dagli errori interni della Grecia stessa.



Quella di Atene, in definitiva, è la fotografia inequivocabile di un default già avvenuto nei fatti anche se solo semi-ufficialmente nella forma. Ecco perché la Grecia è un caso “politico” e un caso “umanitario”: un Paese da salvare in nome della solidarietà europea, non un esempio a cui ispirarsi per ridisegnare l’Europa. Ridisegnare l’Europa e portarla finalmente dall’austerità alla crescita e alla solidarietà è invece una battaglia (epocale) completamente diversa. E non sarà di certo facendo leva sul “no” del referendum greco che riusciremo a convincere la Merkel, Schaeuble e Weidemann a cambiare strategia. Eurobonds, investimenti, infrastrutture, ricerca, innovazione: sono tutti concetti che si possono spiegare molto più facilmente ai diffidenti tedeschi in lingua italiana e dopo aver fatto le dovute riforme (come l’Italia sta facendo) anziché in greco e senza averne avviata nemmeno una (come è il caso di Atene).



Peccato che mentre la Grecia esalta le sue virtù storiche e il suo "coraggio referendario", l'Italia spesso denigri i suoi meriti e punti di forza presenti. Che vanno valorizzati nel confronto e nel dialogo con gli altri Paesi partner per rafforzare con una nuova architettura - più politica - il progetto incompiuto della moneta unica. Ovviamente per restare protagonisti nell’euro, non per uscirne come pretenderebbero alcuni avventuristi leader politici italiani.