The Lobster, amatevi ve lo ordino. O sarete trasformati in animali

The Lobster, amatevi ve lo ordino. O sarete trasformati in animali
di Fabio Ferzetti
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Sabato 21 Novembre 2015, 00:31 - Ultimo aggiornamento: 2 Novembre, 16:32
Una favola nera che discende in linea diretta dal Surrealismo e in particolare da Luis Buñuel, anche se allude con tragica esattezza e disperato umorismo al nostro presente. Un ritorno a uno degli ingredienti narrativi più in uso tra gli antichi, la metamorfosi, spogliata di ogni sacralità per diventare la massima pena prevista in una società che ha fatto della “felicità” coniugale un obbligo.



O forse una crudele satira del totalitarismo soft in cui siamo immersi senza nemmeno accorgercene, popolata da personaggi che applicano inflessibilmente la Legge e da altri che cercano disperatamente l’anima gemella tra gli ospiti di quel lager camuffato da lussuoso resort. In cui il tempo scorre tra serate danzanti, saune rilassanti, caccia ai “solitari” fuggiti nel bosco (ogni preda umana garantisce qualche giorno in più di libertà). E punizioni casalinghe ma esemplari. Come quella che tocca agli ospiti sospettati di autoerotismo, costretti a ficcare la mano nel tostapane, per giunta davanti a tutti, nella sala della colazione...



Come molti film importanti, The Lobster sfugge alle definizioni. Anzi cambia pelle man mano che avanza. Come i suoi personaggi, destinati a esser trasformati in animali se non trovano un partner entro 45 giorni. La prima parte, ambientata in quel vasto resort «aggressivamente beige», come ha scritto con arguzia Variety, è più apertamente satirica, anche se come in tutti i film di questo geniale regista greco 40enne la ferocia è dietro l’angolo.



La seconda è invece più spietata e insieme didascalica. Perché unendosi agli “scoppiati” che non hanno voluto o saputo trovare un partner e si sono dati alla macchia, vivendo quasi come animali tra i boschi, il malinconico Colin Farrell (mai forse così bravo) si ritrova immerso in un neopuritanesimo non meno totalitario di quello da cui è fuggito, gestito con mano di ferro dalla leader dei ribelli Léa Seydoux. Come se a quella prima parte folgorante per intuizione e densità metaforica, dovesse per forza seguire un capitolo più disteso ed esplicativo, ma anche meno inventivo e affascinante.



È il prezzo che pagano i film più estremi, capaci di creare mondi quasi uguali al nostro usando solo pezzi del mondo in cui viviamo, appunto. Ma è anche il segno di una personalità d’autore prepotente che fa di Yorgos Lanthimos, già regista di due altre ispide fiabe nere scoperte a Cannes e a Venezia, Canino (nel senso di dente) e Alpi, una delle grandi scoperte del cinema europeo di questi anni.



Per cui, malgrado dubbi e riserve, conviene non perdere questo film visivamente molto sofisticato, sorretto da una colonna sonora che mescola con sapienza Beethoven, Schnittke, Stravinskij, Nick Cave, canzoni tradizionali greche e molto altro. E affollato di personaggi memorabili anche in poche scene.



Come la soave direttrice del resort, che oltre ad allietare gli ospiti con sinistre esibizioni canore, compiute in coppia col suo rotondo coniuge, dispensa consigli e precetti come la sacerdotessa di una religione assurda ma misteriosamente logica. In tenebroso accordo con un mondo invaso da leggi non scritte ma ferree che imbrigliano la nostra sfera sociale e anche quella personale.
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