ANTICIPARE
Se è bene evitare di anticipare il finale (anche se questa volta la storia è meno thriller e più sentimentale-socio-psicologica), possiamo anticipare che il mistero Dicker resta intatto. Come Il Caso Quebert, anche Il libro dei Baltimore si legge d’un fiato. La resistenza è vana: con grazia e sapienza, Dicker costruisce ramificazioni narrative che tengono su senza sforzo. Anche meglio: lo scrittore è talmente “efficace” che al lettore interessa sì il finale, ma molto di più interessa il “come” andrà a finire: l’evoluzione, addirittura la descrizione, dei personaggi e delle situazioni. Senza paura di sfidare i fantasmi del passato e di confrontarli con successi (letterari o commerciali che siano) che possono non ripetersi, Dicker ci fa ritrovare Marcus Goldman, scrittore che già cercava l’ispirazione nel “caso Quebert” e che la cerca di nuovo nel Libro dei Baltimore. Il thriller poliziesco di Quebert, diventa però il dramma familiare (anzi Dramma, con la D maiuscola in tutto il testo) della famiglia Goldman.
Per la precisione del ramo “Baltimore” della famiglia, quello più ricco, bello e brillante, rispetto al ramo “Montclair” cui appartiene Marcus, più inesorabilmente middle class. Lo zio Saul, sua moglie Anita e il cugino Hillel abitano una casa meravigliosa a Baltimore. Sono intellettuali, colti, sensibili, eleganti. Il giovane Marcus li adora, lo scrittore Marcus ne dovrà raccontare il dramma che li annientò. Cosa, come e perché è successo quello che è successo, il lettore lo scoprirà solo leggendo, e non si annoierà.
CORAGGIO
Al critico stabilire se l’abile fabbricante è anche vero scrittore. Di certo ha coraggio. Coraggio nell’affondare la lama in solidi cliché senza prevedibilmente smontarli: anche i ricchi – e gli intelligenti, e i colti, e i liberal – piangono, l’infanzia è piena di illusioni, ne è la culla, e la cosa è destinata a ripetersi in eterno come una maledizione, e poi la gelosia: è un tarlo, anche per il migliore degli uomini, il più cinico dei letterati. A Dicker, questa storia del successo commerciale, se sia letteratura o no, se sia stata una sorpresa oppure no: tutto questo l’ha già stancato nonostante la giovane età. La verità sul caso Quebert era il suo settimo romanzo. I sei precedenti non avevano mai trovato un editore. «Per me scrivere è felicità» ripete spesso. Sul personaggio di Marcus come alter ego: «Non credo ci sia più me stesso nel personaggio Marcus che negli altri personaggi…Al di là degli aspetti tecnici, quello che conta è questo desiderio di capire e scavare nelle storie degli altri. Marcus vuole sapere chi è. E penso che gli serviranno più di due libri per arrivare a capirlo davvero». Nell’attesa di un nuovo capitolo nella saga di Marcus Goldman, Dicker ci offre questo “lessico familiare” che somiglia, per i colori, le atmosfere e il ritmo, a una serie americana. Una delle migliori: quelle un po’ noir, con attori di grande talento, e sceneggiature degne del miglior cinema. La geografia resta quella cara e nota allo scrittore: l’est americano, con i suoi grandi spazi e, come ha detto: «la relativa amnesia che le frontiere naturali conferiscono a quelli che le attraversano». Nell’attesa che i posteri stabiliscano a quale tribuna dell’olimpo letterario appartiene Dicker, certo gli va riconosciuto un altro atto coraggioso, quello di scrivere “romanzi” in un’epoca in cui la narrativa, e soprattutto la migliore, è in debito con la realtà, in cui l’affabulazione è soprattutto inchiesta, indagine, delucidazione di fatti, il cui il poliziesco è al servizio della risoluzione di misteri di Stato. Con ingordigia ci si butta dentro la storia dei Goldman-di-Baltimora «…che erano abituati a servire, e noi eravamo servi», e dentro al “Dramma” che, come solo un buon romanzo ha il potere di fare, si rivela “più reale della realtà”. Con un avvertimento comunque: la verità si scopre soltanto alla fine.
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