Greta Cristini

Missili da Teheran/ L’incognita della guerra nella risposta di Israele

di Greta Cristini
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Lunedì 15 Aprile 2024, 00:17

L’attacco dell’Iran in territorio israeliano segna un inedito storico nello scontro fra le due principali potenze del Medio Oriente. Le regole di ingaggio fra la Repubblica Islamica e lo Stato ebraico sono state innalzate a un livello mai sperimentato prima, tanto che Teheran ha parlato di una “nuova equazione” aperta nel confronto col nemico strategico israeliano. La scelta e il carattere circoscritto della rappresaglia decisa da Teheran segnalano almeno tre rilievi sullo status del conflitto di potere più importante della regione. Primo: Iran e Israele hanno perso il potere di deterrenza. Secondo: ristabilirlo è l’ossessione e la calamita che attrae le due principali potenze della regione l’una contro l’altra, in una spirale potenzialmente incontrollabile. Terzo: nessuno dei due protagonisti, degli alleati e dei paesi vicini coinvolti vuole una guerra diretta.


La distruzione di un edificio del complesso diplomatico iraniano a Damasco del primo aprile scorso con l’uccisione di Mohammad Reza Zahedi – comandante della Forza al-Quds (l’élite del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche) e più alto funzionario militare iraniano ad essere ammazzato dopo l’assassinio nel gennaio 2020 a Baghdad del generale Qassem Suleimani ad opera statunitense – ha costretto l’Iran in una posizione complicata. Non rispondere significava per Teheran erodere la propria reputazione di potenza temibile tanto nella percezione della propria opinione pubblica interna quanto delle forze che sono parte dell’Asse della Resistenza. L’opera di accerchiamento ai danni di Israele portata avanti in questi mesi dalla rete di milizie filo-iraniane, del resto, serviva all’Iran per mettere sotto scacco Tel Aviv evitando però un conflitto militare diretto. Una volta colpita formalmente sul proprio territorio, Teheran ha scelto di rispondere per la necessità inaggirabile di dimostrare la propria capacità e disponibilità al confronto aperto con Israele, senza però esserlo davvero. Non è un caso che ad attacco ancora in corso la missione permanente iraniana presso l’Onu abbia dichiarato che per Teheran “la questione può considerarsi conclusa”. Un tentativo di limitare l’ira israeliana riconfermata ieri dal ministro degli Esteri iraniano Amirabdollahian secondo cui “Teheran non è alla ricerca di un’escalation”.

Eppure, solo perché l’Iran ritiene che i suoi attacchi chiudano la questione, non è affatto detto che sia così. Tanto più considerando che l’intercettazione del 99% dei droni e dei missili iraniani da parte di Israele e dei suoi alleati non fa che ricordare a Teheran di essere sprovvisto dell’unico vero deterrente ancora credibile (forse): la bomba atomica.

La palla quindi ora passa a Israele, anche lui alle prese con un’evidente crisi della propria capacità deterrente dopo l’attacco terroristico di Hamas. Con o senza Netanyahu, infatti, l’establishment governativo, militare e di intelligence israeliano considera il 7 ottobre come l’evento acceleratore di un progetto più ampio volto a emancipare lo Stato Ebraico dallo status di emergenza permanente in cui è nato nel 1948. In altri termini, è l’opportunità di rimettere ordine in Medio Oriente, scoraggiando i principali nemici della regione, a partire dall’Iran e dai suoi proxies, dal generare nuove minacce alla sua esistenza, anche con attacchi preventivi. Con questo spirito, Tel Aviv ha già chiarito che una forma di ritorsione ci sarà. Il futuro degli equilibri mediorientali dipenderà dalla sua portata. Il gabinetto di guerra israeliano può decidere di continuare ad attaccare obiettivi iraniani nella regione, restando al di fuori del territorio iraniano. O può orchestrare un attacco proporzionato contro obiettivi militari in territorio iraniano. Quel che sembra inverosimile è che decida di mettere in atto un casus belli attaccando, ad esempio, i programmi di armamento nucleare iraniani o una serie di obiettivi militari e politici in Iran. Forse l’unica linea rossa che sancirebbe una vera rottura dell’alleanza strategica fra Stati Uniti e Israele. Il diritto a esistere dello Stato ebraico è garantito dalla protezione militare americana ed è improbabile che gli americani vogliano scortare Israele verso l’autodistruzione.

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