Gli scrittori non sono mai fotogenici, 250 ritratti in un libro

Luca Ricci
di Luca Ricci
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Sabato 20 Settembre 2014, 08:35 - Ultimo aggiornamento: 12:30
Il rischio per gli scrittori quando si fanno fotografare quello di assommare narcisismo a narcisismo, e alla fine fare un po’ la figura dei vanagloriosi. E tuttavia le foto servono, a maggior ragione in un’epoca in cui l’opera è spesso il mezzo per arrivare all’autore (e non il contrario). La spettacolarizzazione della letteratura, passando per un talk show televisivo o un festival letterario o il profilo di un social network, ha imposto agli scrittori una cura maniacale del loro aspetto, al pari se non di più del proprio talento. Lo stile, per quanto originale, non può nulla senza uno stylist: ecco allora che nella mente si sovrappongono le immagini delle bandane di David Foster Wallace, delle maniche di camicia arrotolate di Alessandro Baricco, dei foulard di Dacia Maraini e degli occhiali a goccia di Paul Auster.



A questo pensavo sfogliando il godibilissimo libro fotografico a cura di Goffredo Fofi “Scrittori” (Contrasto, 29,90 €), 250 autori ritratti da grandi fotografi (le coppie son sfiziose: Capote-Avedon, Proust-Ray, Sciascia-Scianna e così via). Nella galleria spicca Alice Munro, che si fa ritrarre da Peter Sibbald spaparanzata su una poltrona di vimini nel giardino di casa sua. Munro riesce a confinare i suoi demoni dentro al recinto della letteratura, e nella foto ha l’aria di una dolce nonnina- i capelli sono già un poco argentati (lo scatto è del 1994)- che ha appena depositato una torta di mele nel forno. Se si vuole questa foto è l’esatto contrario delle immagini più famose di Ernest Hemingway (anch’egli, come Munro, maestro della short story e premio Nobel). Il papà della generazione perduta era sempre pronto a mettersi in posa nelle situazioni più strampalate: in stampelle con la divisa dell’esercito americano, accanto a un gigantesco pescespada appena pescato; a petto nudo mentre tira di boxe (guardandosi allo specchio come un Narciso).



Ovviamente la posa più inflazionata è quella sofferta, a intendere che l’homme de lettres, lo scrittore, frappone tra sé e il mondo la sua intelligenza (il suo ego?), e che l’ingenua felicità è per gli stolti. André Gide immortalato nel 1939 da Gisèle Freund cade con tutt’e due i piedi nel cliché: si regge la fronte con una mano e tiene gli occhi socchiusi, in atteggiamento di profonda contrizione (un ascot al collo completa il quadro di sofisticato patimento). Basandosi sull’immagine fa quasi tenerezza la motivazione con cui l’Accademia svedese gli attribuì il Nobel, e cioè “per la lotta contro il conformismo e i pregiudizi”. Michel Houellebecq, che dell’angoscia post-esistenzialista ha fatto un marchio di fabbrica, viene ritratto nel 1998 da Martine Franck afflosciato su una grande poltrona di pelle (che tragicomicamente a qualcuno potrebbe ricordare il famigerato pouf di Fracchia la belva umana). Manco a dirlo lo sguardo è perso nel nulla, la camicia fantasia avvolge mollemente quel che sembra lo scheletro di un corpo, la mano (anche se ferma non è difficile immaginarsela tremante) stringe il moncherino di un sigaro.



In opposizione alla categoria succitata, c’è una forma di snobismo forse ancora più sottile e perversa, ovvero quella di chi, già famoso e premiato, gioca a fare l’uomo del popolo, colui il quale ha capito che essere un genio in fondo è una qualità come un’altra, come saper saltare la corda o contare fino a cento. John Le Carré, ovvero lo scrittore di spy-story più conosciuto al mondo, nel 1989 decide di farsi ritrarre da Lord Snowdon con una camicia da quattro soldi e un giubbotto col colletto di pelo. Come a dire: le mie storie sono molto più interessanti di me. A onor del vero, ci sono anche i common people autentici. John Fante negli anni cinquanta, peraltro ritratto da un fotografo senza nome, è a tutti gli effetti uno sconosciuto. E tale continuerà ad essere fino alla morte, avvenuta in circostanze drammatiche a causa del diabete, e nonostante Charles Bukowski già alla fine degli anni settanta avesse detto di lui che “era il suo Dio”. Nella foto vediamo un uomo spaesato che evita di guardare l’obiettivo, con indosso una semplice maglietta bianca che lascia scoperti biciti e avambracci contadini.



Abbondano le foto troppo studiate, quelle che tra l’altro sprigionano il senso di vanità maggiore (e il cerchio si chiude). Willian S. Burroughs vestito di tutto punto con completo grigio, panciotto e cappello, nonché sgargiante cravatta ocra, che imbraccia un fucile (Mario Ruiz, 1987); Amélie Nothomb che sottrae la parte inferiore del proprio viso all’obiettivo, lasciando solo occhi e cappello a cilindro (Beowulf Sheehan, 2011); Vladimir Nabokov in calzoncini corti, camicia e bombetta che, fotografato dal basso, sta per catturare nel suo retino proprio chi lo sta guardando, trasformandolo in farfalla (Philippe Halsman, 1966).



Twitter: @LuRicci74