Li guardi tutti vestiti di bianco, manco fossero tennisti a Wimbledon o schermidori, due categorie di atleti che non hanno l’armocromista. Da lontano puoi anche scambiarli per persone in tutta protettiva da qualche radiazione o virus scappato da un laboratorio. Accade, a Roma, magari a Capannelle, a Piazza Mancini, a Villa Pamphilj, tra suoni di purosangue che scalpitano o di runners all’ultima scarpa. Invece sono cricketers, cioè giocatori di cricket. Fanno quel che fanno in mezzo mondo: è stato calcolato che la metà del genere umano vivente sia appassionato a questo sport, nel quale ogni partita, dicono, può durare anche cinque giorni. Due miliardi e mezzo di persone si appassionano alla faccenda.
E adesso hanno un futuro olimpico: il cricket torna ai Giochi che ha frequentato una sola volta, a Parigi 1900, due squadre partecipanti, una inglese e una francese: vinsero gli inglesi.
Se guardavi il mappamondo olimpico c’era un gigantesco buco geografico: India, Pakistan e Bangladesh, rispettivamente un miliardo e mezzo, 250 milioni e 180 milioni di persone. Con il cricket l’hanno riempito: e quelli, poi, smanettano con il clic a tempo pieno. Anche perché sognano i loro assi: nella Premier League di cricket in India i campioni guadagnano 5 milioni e passa l’anno. E poi ci si aspetta l’”effetto Dream Team”: lo ha vissuto il basket. Le statistiche dicono che prima di Barcellona ’92, quando gli assi dell’Nba entrarono nel giro olimpico, a quel campionato in America partecipavano 23 cestisti non Usa di 18 Paesi; adesso sono 120 di 40 Paesi. È la globalizzazione. Lo farà anche il cricket?