Marina Valensise
Marina Valensise

Il commento/ La solitudine (e gli errori) dell’autarca

di Marina Valensise
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Mercoledì 8 Maggio 2024, 00:51

Colpisce la solitudine imperiale di Vladimir Putin il giorno del giuramento per il suo quinto mandato di Presidente della Federazione russa. Votato da una maggioranza assoluta dopo elezioni farsa, senza liste, senza candidati, col rischio di carcere per gli eventuali concorrenti, e pena di morte sicura per gli oppositori, il capo di tutte le Russie è entrato nel palazzo del Cremlino col suo abito scuro e una cravatta rossa, mentre sei anni fa era blu. Ha salito con passo da judoka claudicante la solenne scalinata ricoperta da un tappeto rosso, fra guardie in alta uniforme con carabina sguainata, ha visto dischiudersi all’annuncio del suo nome le ante monumentali della porta dorata, prima di fare il suo ingresso nel salone di Sant’Andrea tappezzato di seta azzurra e di stucchi dorati, dove era atteso da uno stuolo di cortigiani, e sistemarsi su una pedana poggiando la mano sulla Costituzione.

A guardarlo così, attraverso le immagini trasmesse in rete, l’occhio vitreo e impenetrabile, il volto indecifrabile, la timidezza tronfia e trattenuta che è l’altro aspetto della solitudine del tiranno, e quelle dita poggiate sulla Costituzione rilegata in marocchino rossi, il pensiero andava al “montanaro del Cremlino” e ai versi clandestini dell’epigramma contro Stalin che a metà degli anni Trenta costarono la vita a Osip Mandel’stam. “Le sue tozza dita come vermi sono grasse/e sono esatte e sue parole come i pesi di un ginnasta (….)”. Corsi e ricorsi, anche a Mosca la storia non lascia scampo, soprattutto a chi è incapace di pensarne il macero di rovine lasciato da settant’anni di dittatura comunista.

Giurando sulla Costituzione, Putin ha inaugurato il suo quinto mandato di presidente dopo venticinque anni di potere indiscusso, fondato sulla violenza e sulla paura. E colpisce l’immagine di estrema solitudine dell’ultimo zar del Cremlino, che contrae in sé il mistero dell’autocrazia russa, combinando lo sfarzo neo imperiale dei Romanov, con tanto di riferimento all’Ordine di Sant’Andrea, massima onorificenza istituita nel 1698 da Pietro il Grande, e il richiamo esplicito alla volontà di potenza del dittatore dei soviet Iosif Stalin.

Assenti dalla cerimonia gli ambasciatori di Unione Europea, Stati Uniti e Regno Unito, e della maggioranza degli Stati europei fra cui l’Italia.

Presenti solo i rappresentati diplomatici di Francia, Ungheria, Slovacchia, Grecia, Cipro e Malta, circondati da una folklorica delegazione di fans puntiniani come l’attore americano Steven Seagal, il cantante Shaman, il guerrigliero ceceno Ramzan Kadyrov e il patriarca Kirill che citava Aleksandr Nevsky.

Lo zar del Cremlino ha ribadito la sua visione paradossale. Parlando ai soldati impegnati in Ucraina ha promesso di superare tutti gli ostacoli, riconoscendone l’esistenza. E rivolgendosi agli Stati occidentali ha detto di voler mantenere il dialogo, per poi domandarsi “Vogliono continuare la politica di aggressione, o guardare alla cooperazione e la pace?”, negando ogni responsabilità nell’aggressione a una nazione sovrana.

Colpisce quindi l’autoreferenzialità di un despota che rischia di scivolare verso un errore strategico: rafforzare la Russia sul fianco est instaurando relazioni privilegiate con la Cina, l’India e la Corea, condanna a lungo termine ad aumentare l’isolamento della Russia rispetto alle potenze occidentali, il giorno in cui la guerra sarà finita.

Il gioco della retorica imperialista insomma non giova a nessuno. Non basta a sollevare le sorti di un paese dalle risorse sterminate, ma mal gestite, che verrebbero colonizzate da giganti demografici come India e Cina. E d’altra parte adeguarsi alle scelte di un pazzo in preda alla paranoia dell’assedio, come ha detto il presidente Mattarella, spinge gli Stati occidentali a dirottare risorsi su investimenti bellici, a scapito di settori produttivi ben più utili per assicurare la cooperazione internazionale e la pace che lo stesso Putin dice di auspicare.

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