È bastata la parola, lockdown (tutti chiusi a casa), perché partisse una valanga di critiche. Walter Ricciardi, autorevole consulente del ministro Roberto Speranza, l’aveva già detto al Messaggero e poi riproposto ieri in prima serata tv, come rimedio immediato per arginare la pandemia.
La tesi: il Covid-19, aggravato, reso infido e pericoloso per effetto delle varianti che mutano l’aggressività del virus, ha bisogno di una stretta severa. Altri esperti d’accordo con il professore: non è piaciuto che fosse lui a fare la proposta e non l’autorità politica. Questione di stile, non di sostanza.
Su un altro versante già s’erano levati gli scudi dei gestori delle piste di sci, degli albergatori e ristoratori del mondo bianco, richiusi mentre speravano di poter riaprire, vittime di uno sbaffo nella comunicazione: lo stop a fermare una macchina già in corsa, dicono. «Niente ristori, più o meno immaginari, servono risarcimenti, a piè di lista», ora è il grido di guerra che s’è levato dall’arco alpino, accolto e rilanciato da voci leghiste.
Il governo, si dice a Palazzo Chigi, sapeva e condivideva il fermi tutti ma il cambio della guardia nell’Esecutivo ha innescato un freno e fatto scattare la trappola. L’insieme dei fatti di queste ore avrà effetti profondi nei primi passi di Draghi e della sua compagine.
È la comunicazione che si mette al centro ed è la comunicazione che lo staff non ancora nominato del presidente dovrà cambiare, riportandola a una dimensione di solenne sobrietà. La pandemia, nelle sue diverse ondate, ha sollevato entusiasmi eccessivi sulla ribalta delle popolarità a buon mercato e prodotto una disponibilità al dibattito, quando non al battibecco, tra esperti.
Il loro ruolo doveva essere solo quello di aiutarci a capire. Metterci in grado di conoscere questo mostro ignoto chiamato Covid dal quale dovevamo imparare a guardarci e che dobbiamo temere in casa e fuori, al lavoro e a scuola, ovunque.
E, invece, purtroppo, il virus dell’apparire e del piacere, ammaliante e velenoso, si è sommato a quello da combattere e il protagonismo di alcuni ha trasformato la cattedra in piccolo palcoscenico.
Comunicare sembra facile.
È accaduto che il Covid Theatre, complici gli abbracci interessati delle telecamere, si è aperto a qualsiasi copione e troppi si sono sentiti autorizzati a discettare sulla pandemia da virologi, epidemiologi, infettivologi ma anche da veterinari. Così si è arrivati ai proclami.
Chi ha deciso che il virus è una febbricola, chi quasi sempre letale, chi ormai sconfitto e chi in attesa di un’altra ondata da migliaia di morti.
Lo stile appena archiviato ha sporcato la scena. Non lo diremmo adesso se non lo avessimo sostenuto anche a suo tempo. Ad una materia che penetra come una lama nel sociale, nelle varie fasi si è aggiunta la sorpresa dei Dpcm notturni che ti cambiano la vita all’indomani, delle litanie sui comportamenti e i sacrifici, delle omelie sui doveri che si contrapponevano ai diritti, molto spesso disattesi. La materia è stata maneggiata con poca cura e troppo ardimento declamatorio. È diventata fatalmente divisiva e non coinvolgente.
S’impone adesso un cambio di passo. Il premier Draghi è uomo di poche parole. Sa usare benissimo i fatti.
E questo intende fare imprimendo alla comunicazione del governo un andamento più legato alla ufficialità e con poca simpatia per il retroscena, il pettegolezzo, l’indiscrezione. Cercherà la sostanza nella forma. E anche nei densi silenzi che diventano luoghi del pensiero e non apnee.
Il Paese non vuole più rimanere con il fiato sospeso.