Da Alves a Boateng, quel feroce virus
che il calcio non sa sconfiggere

Carlo Tavecchio, candidato alla presidenza Figc
di Francesco Olivo
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Domenica 27 Luglio 2014, 10:41 - Ultimo aggiornamento: 14:25
Gira e rigira siamo sempre l a discutere di cose poco dignitose e di paragoni immondi: banane, scimmie, ululati.



«Opti Pobà che mangia le banane e adesso gioca titolare» è solo l’ultima di una serie sconfortante di espressioni becere che circondano il calcio, stavolta arrivate dai suoi massimi livelli politici. Normale quindi che nelle piazze vere e virtuali si facesse un parallelo: «Ma se quello che ha detto Tavecchio l’avessero pronunciato in curva, non sarebbe scattato un Daspo?». Sì, perché il razzismo è stato il tema dell’anno (peraltro non il primo): curve chiuse, squalifiche, accuse e vergogne nazionali. Tanto che la sconfortante conclusione è che il calcio non riesce a uscirne.



IL FRUTTO

Di predecessori Tavecchio ne ha tanti, qualcuno l’ha fatta franca e qualcuno, invece, è statopunito. Al centro c’è spesso un simbolo: la banana. Usata dai razzisti e poi anche dagli antirazzisti proprio per ribaltarne l’icona. Il caso più clamoroso con al centro l’incolpevole frutto tropicale è avvenuto in Spagna. Aprile 2014: Villarreal-Barcellona, dalla tribuna arriva una banana accanto a Dani Alves, esterno brasiliano dei catalani, il quale invece di deprimersi reagisce con ironia: raccoglie la banana e la mangia. La mossa (forse studiata in precedenza, ma comunque geniale) diventa popolarissima: tutti si fanno ritrarre imitando il gesto, da Renzi a Prandelli, da Neymar ad Aguero. Il lanciatore, invece, non la passò liscia: bandito a vita dallo stadio Madrigal, fine di ogni collaborazione con il Villareal (era un allenatore delle giovanili) e pure il licenziamento in tronco. La storia finisce con una sorta di parabola: colui che definì una scimmia si prodigò per fargli riavere il posto di lavoro.



ZORO IL CAPOFILA

In Italia l’inciviltà razzista ha riempito le cronache per anni: il primo a ribellarsi agli ululati fu nel 2005 Marco Andrè Zoro, difensore del Messina, non indimenticabile, ma coraggioso: davanti agli ultrà dell’Inter che lo insultavano decise di abbandonare il campo. La partita continuò, ma il tema a quel punto non fu più ignorato. Qualche anno dopo è il Milan ad abbandonare una partita contro la Pro Patria (un’amichevole), dopo che dagli spalti erano arrivati insulti ai suoi giocatori di colore, Boateng, Emanuelson e Muntari. Ribellione meno appariscente fu quella di Juan, il difensore brasiliano della Roma che all’ennesimo buu dei tifosi della Lazio si portò il dito alla bocca per mettere a tacere i razzisti.



Negli ultimi tempi non c’è dubbio che il catalizzatore di quasi tutti gli scherni razzisti sia stato Mario Balotelli, bersagliato in tutta Italia più per la pelle che per gli atteggiamenti da bullo. Al centravanti del Milan è stato urlato di tutto: con una filosofia di fondo (chiamiamola così): non esistono neri italiani. E così partiva la manfrina delle sanzioni: squalifica del campo, dei settori, Daspo e tutte le soluzioni non propriamente risolutive. Anche noi annoveriamo lanci di banane: è successo quest’anno a Bergamo quando durante Atalanta-Milan fu colpito il centrocampista Costant che si rivolse all’arbitro Rizzoli dimostrando di aver imparato la lezione di Dani Alves: «Che faccio la mangio?». Ironia ammirevole, che non cancella l’amarezza per la scena. Lo stesso Costant fu preso di mira durante un’amichevole con il Sassuolo.



LA VARIANTE TERRITORIALE

Una discussa variante del razzismo calcistico è quella ribattezzata (con eccesso di burocratese) la «discriminazione territoriale»: termine che definisce di fatto i tanti insulti che i napoletani raccolgono un po’ in tutta Italia. C’è differenza tra una banana e un invito all’attività vesuviana? Il tema è aperto, ma la costante è la stessa: se non può essere una festa, la partita potrebbe almeno non assomigliare a un rosario di esibizioni xenofobe.
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