Rifiuti, il coperchio del malaffare sollevato dalla procura

di Paolo Graldi
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Giovedì 16 Gennaio 2014, 09:12 - Ultimo aggiornamento: 09:13
​Ormai chiaro: lo scandalo dei rifiuti, la grande discarica della corruzione capitolina, scoperchiata dalla Procura della Repubblica, la punta di un iceberg d’una ramificatissima ragnatela del malaffare legalizzato. Un filo rosso che ha incontrato sul suo più che trentennale cammino molte interessate cecità e che ha permeato di sé intere legislature.

L’istruttoria promossa dal procuratore Pignatone , con i suoi primi arresti, segna una svolta importante, forse decisiva: va a incidere con il bisturi della determinazione investigativa su un tessuto marcio, intriso di complicità estese e variegate, nella quali si intravedono coinvolti presidenti di Regione (anche di centrosinistra) e perfino esponenti dell’ambientalismo radicale con intorno una pletora di funzionari infedeli.

Affari per miliardi, connivenze interne all’amministrazione, lungo intere legislature, promozioni interessate, occupazione massiva di poltrone di velluto rosso, odore di mazzette. E talpe. Talpe capaci di infiltrarsi negli uffici giudiziari, di conoscere in anticipo le mosse degli investigatori e dei magistrati (a Velletri dagli spifferi usciva qualsiasi notizia destinata a “soccorrere” gli indagati). Fino ad arrivare alla sfacciata arroganza di carpire da una cassaforte un faldone con la richiesta della Procura dei primi ordini di cattura. L’ampiezza che la meritoria iniziativa dei magistrati ha avvitato non è ancora definibile.



Ma già adesso s’intuisce che il malaffare sui rifiuti della Capitale è stato gestito per un lunghissimo arco di tempo al riparo da sgradite intrusioni, quelle che si chiamano “controlli” rigorosi su una materia che coinvolge l’intera cittadinanza, che riguarda il tema della tutela della salute. Si scopre strada facendo ciò che non pochi da tempo sospettavano, inascoltati: che la raccolta dei rifiuti a Roma era divenuta, in regime di assoluto monopolio, una oliatissima macchina della corruzione e che per farla funzionare al meglio si ricorreva perfino al ricatto del rischio di epidemie.



O Malagrotta o malattie, s’andava agitando nelle stanze della Regione allorché la situazione nella discarica di Malagrotta era divenuta insostenibile. E c’era sempre chi accoglieva l’allarme con generosa condiscendenza. Questa storiaccia, che sembra avere la fisionomia di una tangentopoli romana a tutti gli effetti dev’essere condotta fino in fondo, scavata con l’arma delle indagini in tutte le sue numerose propaggini, individuando complicità, connivenze e interessate distrazioni. Lo scandalo di Malagrotta diviene così il paradigma che mostra una classe politica e una classe dirigente inginocchiata davanti all’altare di interessi criminali.



La vicenda del faldone sparito aggiunge allo scenario d’insieme qualcosa di inedito. La scena si svolge a Piazzale Clodio, città giudiziaria, oggi. Dall’ufficio del gip Massino Battistini sparisce il faldone, quattrocento pagine, con la richiesta d’arresto di Manlio Cerroni e della sua banda di complici interni a Malagrotta e ad alti livelli nella amministrazione regionale. Si era a metà luglio. Quelle pagine sono poi state pazientemente ricostruite dai magistrati diretti da Giuseppe Pignatone, in gran segreto e con gran dispendio di tempo prezioso e così pochi giorni fa sono scattate le manette al “Supremo”, il re del rifiuto, Manlio Cerroni, il quale ieri, interrogato a casa sua (per l’età, 86 anni, è ai “domiciliari”) con tono risentito si è definito l’Oracolo, il Salvatore di Roma dal caos dell’immondizia. E poi, precisando: sia chiaro, era la politica a cercare me, non il contrario.

Grazie “Supremo”, troppo generoso. Vedremo chi ha cercato chi. Ma, comunque, il furto senza scasso del fascicolo processuale, documento segreto e delicatissimo, chiuso in cassaforte, tirato fuori da una mano lesta senza lasciare traccia, neppure sui nastri della videosorveglianza, dev’essere svelato in tutta fretta. Il prezzo non importa. Si deve sapere come mai la rete fittissima di connivenze dell’Oracolo Supremo, dopo le ripetute fughe di notizie dalla procura di Velletri che lo indagava faticosamente da anni, si sia potuta spingere fin nel cuore del palazzo di Giustizia di Roma, con all’arrogante gesto di trafugare una richiesta di arresto dei pubblici ministeri.



A memoria si rintracciano ben pochi precedenti. Anzi, nessuno. Neppure la banda della Magliana, allora potentissima anche dentro quegli uffici, osò tanto. Lo scandalo di Malagrotta, con tutti i suoi intrecci e collusioni con la politica, ne contiene dunque un altro forse ancora più inquietante. E così, avviata la ovvia ricerca dei responsabili, sarà opportuno e urgente che si muova anche il Guardasigilli Cancellieri: uno squadrone di ispettori sia mandato a sirene spiegate a piazzale Clodio almeno per constatare quel che già si può vedere chiaramente fin d’ora. E che la caccia alle talpe non sia cieca, qui c’è bisogno di luce.