Visioni opposte/ La fine degli equivoci per le due sinistre

di Alessandro Campi
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Lunedì 20 Febbraio 2017, 00:59
Scissione doveva essere, scissione sarà. Farne adesso soltanto una questione di personalismi, ripicche, incomprensioni e vendette (che pure non sono mancati), sarebbe sbagliato, dal momento che la crisi del Pd, culminata nella secessione largamente annunciata e attesa della sua minoranza di sinistra, viene da lontano e probabilmente ha ragioni, per così dire, genetiche e strutturali.

Quando Veltroni fece nascere il Pd, l’abbraccio delle due più grandi culture politiche dell’Italia repubblicana, la cattolica e la comunista (con una spruzzata di movimentismo di matrice ambientalista), venne salutato come un fatto storico, che avrebbe contribuito alla creazione di un fronte progressista addirittura inedito su scala internazionale. Salvo omettere, sull’onda di un eccessivo entusiasmo, che le due culture erano arrivate a quell’appuntamento della storia esauste e prive del loro antico slancio ideale, e per di più gravemente depauperate nei consensi.
Riletto oggi, fu dunque più un abbraccio per salvarsi da una consunzione lenta, che l’inizio di una stagione politico-intellettuale interamente nuova. Di nuovo c’era sicuramente il pantheon di figure che avrebbe dovuto, nella proposta di Veltroni, sostenere l’esperimento, che andava da Gandhi a Jovanotti, da Kennedy a Norberto Bobbio, ma già questo pachtwork ipermodernista avrebbe dovuto ingenerare qualche sospetto. 

Era infatti un assemblaggio mediaticamente suggestivo che però già mostrava, nella sua effimera reversibilità, quanto certe radici o tradizioni si fossero rinsecchite anche agli occhi di chi avrebbe dovuto perpetuarle in forma rigenerata.
Si omette anche di ricordare che a incontrarsi e a trovare un accomodamento non furono tanto le masse formate dagli antichi credenti delle due chiese ideologiche, nel frattempo secolarizzatesi sul piano delle credenze ed elettoralmente da un pezzo in libera uscita, quanto apparati e oligarchie che da allora in avanti – come mostrano le cronache politiche di questi ultimi dieci anni – non hanno fatto altro che combattersi in maniera sorda e spesso cinica per ragioni di egemonia interna, secondo una logica autodivoratrice e vagamente suicida di cui la scissione di queste ore rappresenta una plateale conferma.

Una crisi antica, quasi originaria, dunque, che non è mai esplosa in maniera dirompente un po’ perché quelle oligarchie s’erano mentalmente formate secondo i codici e le costumanze tipiche della Prima repubblica e dei loro padri ispiratori: erano dunque naturalmente portate al compromesso e all’accordo anche dopo essersene dette e fatte, in privato e in pubblico, d’ogni colore. Ma anche perché a fare da collante a quel partito nato da una sintesi precaria e forzata c’erano l’onda lunga dell’antiberlusconismo militante e un sistema partitico strutturato in chiave maggioritaria, che a sua volta favoriva l’unità, almeno di facciata, con l’obiettivo di catturare voti e consensi da ogni dove.
Quello che è accaduto in anni recentissimi è noto e certo non ha aiutato il rafforzamento del Pd. Berlusconi ha smesso di essere il nemico unico e oggettivo che unisce tutti. Sulla scena è nel frattempo emerso prepotente il M5S, che ha dato al sistema politico italiano un’inedita configurazione tripolare. Le tanto lodate primarie, forse la novità più grande introdotta dal Pd come strumento di selezione dal basso dei propri gruppi dirigenti, si sono sempre più risolte in occasioni di scontro interno e in una pratica logorante, quasi anarchica, quando non hanno dato la stura a manipolazioni vere e proprie. Mettiamoci anche il ritorno recentissimo al proporzionale. Infine, alla guida dello stesso Pd è arrivato una figura anomala e dirompente come Matteo Renzi. Né post-comunista né post-democristiano, proprio per questo lo si poteva considerare, almeno in teoria, il frutto riuscito di un innesto politico a suo tempo azzardato. Il segno che il Pd, seppure nato da un compromesso tra gli apparati dei vecchi partiti, aveva fatto nascere un ceto politico autonomo e originale, al quale cedere progressivamente, anche sul piano generazionale, la guida di una sinistra finalmente rinnovata. Il segno ancora che dopo aver a lungo cercato un leader o capo, che non fosse semplicemente il garante di equilibri pregressi, ma uno dotato di forza propria e non formatosi nelle vecchie cellule o sezioni, lo aveva finalmente trovato.

Ne è nata invece una violenta crisi di rigetto, divenuta poi scontro aperto, che lo stesso Renzi certo non ha contribuito a smorzare. Molti maggiorenti del Pd si sono visti messi all’angolo o colpiti nel proprio orgoglio da quello che hanno considerato prima una forza della natura, che li avrebbe resi vincenti alle urne, poi un nemico. Li ha presi la paura di non trovare più uno spazio di azione politica – più per sé che per le proprie idee. Alcuni hanno scelto l’accordo e la convivenza col nuovo leader. Altri hanno scelto la strada della battaglia interna. Una parte, come si è visto, ha invece preferito l’abbandono e la secessione. Era del resto chiaro che il fronte anti-Renzi comprendesse anime molto diverse: da un lato i critici ed avversari, dall’altro i nemici. I primi interessati a fargli cambiare strada o a ridurne il potere, ma senza intaccare la solidità del partito. I secondi, certo in dissenso con Renzi su questioni delicate (lavoro, rapporti col sindacato, scuola, visione del welfare), ma soprattutto interessati a eliminarlo dalla scena, a impedirgli a tutti i costi di correre nuovamente per la segreteria, in modo da certificare una volta per tutte la sua estraneità antropologica alla sinistra per come essi l’intendono.

Stando così le cose, questa scissione, per quanto dolorosa e potenzialmente foriera di conseguenze negative – dal momento che la sinistra tutta ne esce indebolita, soprattutto nella sua pretesa di costituire l’unica alternativa di governo al M5S –, rappresenta almeno un elemento di chiarezza, dopo mesi di tensioni e di lotte che elettori e simpatizzanti hanno interpretato soprattutto come una guerra di posizionamento e potere condotta tra singoli e gruppi per i loro specifici interessi. Chissà, forse per far nascere sul serio il nuovo Pd bisognava fare morire quello vecchio.
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