La direzione dem/ Ma il big bang della sinistra decide la crisi

di Massimo Teodori
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Mercoledì 7 Dicembre 2016, 00:05
Dobbiamo augurarci che la direzione del Partito democratico che si riunisce oggi sia un momento di verità nella confusione del post-referendum. Dopo mesi di discussioni, che sono servite più per attizzare gli animi che non a chiarire il significato del voto referendario, è giunto il momento di tornare con i piedi per terra. Il Pd rappresenta il partito di maggioranza relativa intorno a cui ruota il governo del Paese: senza il suo apporto è impossibile qualsiasi formula politica. 

Dopo la sconfitta Matteo Renzi ha deciso di continuare ad essere il segretario del partito. Ha così accolto il saggio parere del presidente Sergio Mattarella che ha indicato la necessità di portare a termine la legge di bilancio dello Stato prima di aprire una crisi di governo e la formazione di un nuovo gabinetto. 

L’odierna direzione Democratica potrà concludersi in diverse maniere. L’alternativa è tra continuare nello scontro tra renziani e anti-renziani che ha segnato l’atmosfera dei mesi passati, oppure procedere al necessario chiarimento verso la guida del partito nell’interesse del Paese, pur senza cancellare le differenze tra maggioranza e opposizione.

Tre anni fa Renzi tentava una politica modernizzatrice che si lasciava alle spalle i tabù della sinistra post-comunista, in parte riuscendo nei suoi propositi, e in parte scivolando nel personalismo che è stato uno dei motivi della sconfitta del 4 dicembre. Oggi, dopo mesi di schermaglie verbali, il Pd dovrebbe riprendere quel cammino coraggioso che aveva caratterizzato in origine il giovane segretario depurandolo dalle cadute che in seguito hanno segnato la sua leadership.

Non sarà facile per il Pd ritrovare la coerenza dopo le faide della campagna referendaria, una specie di lungo surrogato di congresso. Il suo gruppo dirigente dovrebbe riprendere a guardare avanti piuttosto che attardarsi nei rancori per ciò che è accaduto. Per un verso sarebbe imprudente se Renzi volesse intestarsi tutto il patrimonio del 40% del “Sì” come se fosse un suo partito personale. Per un altro sarebbe nocivo per gli interessi nazionali se la minoranza di D’Alema e Bersani rivendicasse come propria la vittoria del 60% del No, dove quella delle minoranza Pd - lo dicono i flussi - è solo piccola parte.

Il voto di quasi i due terzi degli italiani ha rappresentato una massiccia esplosione contro la classe dirigente impersonata da Renzi, in definitiva contro la stessa politica. Più che un avallo della minoranza Democratica o di altri partiti, il 4 dicembre ha espresso un vera e propria dichiarazione di massa, per quanto rozza e approssimativa, ispirata al “vaffa” grillino. 

Per il ruolo di partito di maggioranza, il Partito democratico non può restare nella confusione delle culture e delle politiche, e nei rancori referendari. Rimane l’unica forza di una certa consistenza, che abbraccia un arco di posizioni dal centro alla sinistra, dopo che l’altra metà della politica tradizionale, le forze che vanno dal centro alla destra, si sono frammentate in spezzoni tra loro oggi ancora incompatibili. Fuori dal Pd, i sondaggi indicano come alternativa il solo Movimento 5 stelle. 

È perciò che la guida del prossimo governo - se non si tratterà di un esecutivo istituzionale - non potrà essere che di un esponente democratico che assicuri continuità e stabilità. Dopo un anno orribile, la politica tutta avrebbe bisogno di un sollecito congresso del Partito democratico in cui si ridefinisca con chiarezza chi è maggiorana e chi minoranza, chi ha il diritto di governare il partito e chi ha il diritto di contestarlo senza praticare forme di ostruzionismo. 

Anche le elezioni dovranno essere convocate appena possibile perché gli italiani hanno il sacrosanto diritto di scegliere la forza che li deve governare e i loro rappresentanti in Parlamento. E’ tuttavia difficile che si possa andare alle urne prima che sia formulata, attraverso le pronunzie della Corte costituzionale o, meglio, con un largo accordo parlamentare, una coerente proposta di legge elettorale riguardante sia Camera che Senato senza restare prigionieri di un gioco dell’oca politico in cui si fanno due passi avanti e tre indietro.
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