Così il terrore riscriverà i bilanci Ue

di Oscar Giannino
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Martedì 26 Luglio 2016, 00:27
Europa è sempre più avviluppata da nuove minacce alla sua sicurezza: dove per sicurezza bisogna intendere un’accezione a più dimensioni. Dieci diverse sfere, per non volerne enumerare di più. La sicurezza delle sue frontiere esterne; quella ormai purtroppo anche delle sue frontiere interne, visto che Schengen non regge più; la sicurezza interna di ogni Paese, che è distintamente fatta di ordine pubblico e antiterrorismo; la sicurezza delle infrastrutture fisiche, produttive e immateriali; quella della coesione sociale dei suoi ordinamenti; quella del suo capitale umano, cioè della difesa della vita, della libertà e della proprietà dei suoi cittadini, sia in ogni Stato membro dell’Unione sia all’estero, come tragicamente comprovato dalla strage di nostri connazionali a Dacca.

L’esplosione del fenomeno migratorio che ha travolto la Ue nel 2015, i reiterati attacchi dell’Isis prima attraverso cellule in armi e foreign fighters e ora per via di singoli che aderiscono per vendetta e squilibrio personale al franchising del terrore, il rimbalzo di Paese in Paese europeo delle reti islamiste e la drammatica svolta della Turchia verso l’autocrazia. Ma si possono aggiungere la caduta in questi giorni dell’idea che la Germania fosse una fortezza aliena dal fenomeno, e persino le chilometriche file a Dover grazie agli accresciuti controlli francesi nel post Brexit: tutto testimonia e comprova che per la sicurezza in Europa c’è un prima e c’è un dopo. Stiamo vivendo l’equivalente con centinaia di vittime delle migliaia che perirono sotto le Torri a New York: e anzi sono ben più le vittime in Europa, contando tutti coloro che sono annegati e continuano ogni giorno ad annegare nel Mediterraneo.
 
Eppure anche sulla sicurezza l’Unione Europea balbetta, come avvenuto sui profughi. Il 13 novembre 2015, dopo l’attacco terroristico al Bataclan, a Parigi, per la prima volta l’Unione Europea ha attivato formalmente la clausola della mutua assistenza prevista dai Trattati. Ma in capo a qualche vertice di routine tutto è tornato all’ordinaria amministrazione. Ogni Stato membro si regola a modo suo, l’intelligence comune resta affidata alla collaborazione volontaria degli apparati nazionali, le indagini giudiziarie cozzano con la diversità delle fattispecie tranne le poche che sono comuni. In più, negli Usa si profila l’ipotesi che alle presidenziali il prossimo autunno possa vincere Trump, che non fa mistero di voler riconsiderare dalle fondamenta la Nato, e l’articolo quinto del suo Trattato che sin qui ci ha vincolato al sostegno comune. Ciascuno paghi e faccia di più per la sua difesa e sicurezza, ripete Trump, noi non siamo più disponibili a rappresentare un comodo ombrello gratuito. E se all’America converrà trattare con Putin ed Erdogan o con chiunque altri a prescindere dall’Europa, ebbene con me alla guida lo farà, ammonisce Trump. Sarebbe un altro potente segnale di una lunga storia che finisce, sotto la pressione di elettorati sempre più “contro” i vecchi establishment. Cambiano le sigle politiche e i leader, ma è lo stesso fenomeno che sta operando in Italia, Francia, Austria, Polonia, Ungheria, e che ha prodotto Brexit.

È molto complicato oggi immaginare nuovi strumenti comuni ad hoc su difesa e sicurezza. In primis perché non previsti dai Trattati – visto che non stiamo parlando della Pesc guidata dalla Mogherini – poi perché la pressione politica è a ricentrare la sicurezza sui propri confini. Ma forse per una volta basterebbe partire proprio dal tradizionale metodo ”funzionale” europeo, quello di riclassificare e potenziare voci di spesa. E’ un metodo entrato in crisi quando si parla di eventuali strumenti mutualistici davanti alle conseguenze asimmetriche della crisi dei mercati e delle banche, nei diversi paesi della Ue e dell’euroarea. Ma almeno sulla sicurezza e difesa – ora che il vero e proprio terrore quotidiano si proietta nella vita di centinaia di milioni di europei - dovrebbe essere meno problematica una rapida scelta comune.

Se esaminiamo la spesa pubblica europea per sicurezza e difesa, la sfida delle dieci dimensioni da cui siamo partiti è persa in partenza. Dai dati Eurostat 2016 si desume che l’Europa a 28 – considerandone Uk ancora come membro – spende in ordine pubblico e sicurezza solo l’1,8% dei propri bilanci pubblici cumulati. L’Italia sta all’1,9% sommando l’1,2% tra le diverse forze di polizia, lo 0,4% alla giustizia, lo 0,2% al sistema penitenziario. Con un drammatico 0% devoluto a investimenti avanzati nella ricerca e sviluppo di strumenti, piattaforme e servizi volti alla realtà “pluridimensionale” delle nuove frontiere della sicurezza integrata. Ma anche la Francia spende solo l’1,6%, esattamente come la Germania. L’ordine di grandezza necessario ad affrontare i tempi nuovi dovrebbe vedere questa cifra crescere di 2-3 volte: e non sembri troppo elevato il moltiplicatore, perché la minaccia si è elevata di un fattore 10, rispetto agli anni post caduta del muro in cui l’Europa ha dovuto affrontare solo la pur terribile guerra balcanica.

Siamo messi ancora peggio nelle spese per la difesa, che va considerata come un unicum con la sicurezza, non un mondo separato come per decenni l’Italia politica ha commesso l’errore di pensare. L’Italia dedica alla funzione difesa in senso stretto, cioè separando dal bilancio del dicastero i carabinieri cui vanno 5,6 miliardi, a malapena lo 0,8% del Pil (con una percentuale elevatissima di questa voce devoluta a retribuzioni e pensioni per il personale), rispetto al 2,2% di Francia e Regno Unito, e non parliamo del 3,6% degli Stati Uniti. Il solo rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero per il 2016 vale 1,2 miliardi, dal Kuwait all’Iraq, dall’Afghanistan al Libano, dal Corno d’Africa ai Balcani, e al Mediterraneo con la missione aero-navale Eunavformed/Sophia.

Che cosa davvero impedisce ai grandi Stati europei di riconsiderare insieme le spese di molto aggiuntive per sicurezza e difesa, come una risposta necessaria alla tremenda sfida che è di fronte a noi? Possibile che non si comprenda che sarebbe non solo una risposta dovuta alla più elevata minaccia, ma anche una strategia conveniente a ogni governo, di fronte alle proprie opinioni pubbliche? Qui non si tratta d’inventarsi spese di comodo elettorali per chiedere lo sforamento dei parametri di deficit europei. Si tratta di capire che le spese aggiuntive dovrebbero essere finanziate da strumenti e meccanismi finanziari comuni, e solo finché non entrano in funzione, intanto consentite e approvate come “fuori dalla linea” dei parametri di bilancio. Non è più il finanziamento comune di una missione aeronavale nel solo Mediterraneo: è una sfida epocale e di durata imprevedibile, che incombe su noi tutti con i caratteri di una nuova inimmaginabile insidia alla tenuta della nostra libertà.
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