Crisi a confronto/ La politica britannica e la capacità di ricambio

di Alessandro Campi
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Venerdì 1 Luglio 2016, 00:07
L’antipolitica non è, come solitamente si ritiene, la reazione dei cittadini, sostenuta da una legittima indignazione morale, contro le degenerazioni della politica e le ruberie dei suoi rappresentanti. È piuttosto il sentimento collettivo che si radica a livello popolare allorché la politica, ritirandosi dalla scena per scelta o costrizione, lascia un vuoto che finisce per essere colmato da ciò che ne nega alla radice il ruolo e il significato.

Per non perderci in chiacchiere e spiegarci meglio, guardiamo a ciò che è successo di recente in Gran Bretagna. La decisione di Cameron di indire un referendum sull’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Unione Europea, cavalcando il “remain”, è stato sicuramente un azzardo mal calcolato. Convinto di vincere la sfida e di liberarsi così, in un colpo solo, dei suoi oppositori nel campo conservatore e degli antieuropeisti che gli rubavano voti a destra, l’ha invece persa malamente producendo un mezzo terremoto su scala globale. E non ha capito gli umori più nascosti del suo popolo. 

Travolto dalle critiche, non ha potuto fare altro - come è dovere di chiunque in democrazia esca malamente sconfitto da una battaglia politica - che annunciare le sue dimissioni. Si è subito aperta, con tensioni forti ma senza particolari drammi, la corsa per la successione al vertice del partito che egli guidava dal 2005. Gli aspiranti certo non mancano: ritiratosi a sorpresa, proprio ieri, Boris Johnson, per la nuova leadership dovrebbero vedersela il ministro della Giustizia Michael Gove e il ministro degli Interni Theresa May. 

Il primo fautore del “Leave”, la seconda del “Remain”. Chi vincerà andrà ad occupare la poltrona di Primo ministro a Downing Street. Quanto a Cameron tra qualche anno leggeremo le sue dolenti, ma certo ben scritte, memorie in cui ci racconterà, a mente fredda, la vera storia del suo suicidio politico. E per gli storici del futuro saranno certamente una fonte preziosa.

Ma del cataclisma inglese Cameron non pare l’unica vittima. Anche il capo dei Laburisti, Jeremy Corbyn, rischia di fare la sua stessa fine, accusato per lo scarso impegno nella battaglia referendaria. Oltre 170 deputati lo hanno già formalmente sfiduciato. Al momento resiste nella carica e non dà l’impressione di volersi dimettere, ma è chiaro che anche in quel partito sta per aprirsi una dura partita per il comando. La sfidante di Corbyn potrebbe essere una donna: Angela Eagle. Se vincesse quest’ultima, e se tra i conservatori dovesse farcela Theresa May, nel prossimo futuro la politica della Gran Bretagna vedrebbe dunque due donne alla guida rispettivamente del governo e dell’opposizione.
 

È la politica, bellezza! Esce chi perde (a causa peraltro dei propri errori) e altri sono già lì pronti a prenderne il posto, seguendo pratiche e procedure codificate e stabili. Il che non impedisce certo colpi bassi e scorrettezze, lacerazioni personali e polemiche furibonde. Ma anche queste ultime fanno parte delle regole del gioco politico. Quello che però soprattutto conta, come la Gran Bretagna ci insegna in questo momento, è che anche dinnanzi a situazioni politiche le più delicate, impreviste e persino foriere di conseguenze negative, come talvolta capitano nella vita di una collettività, nessuno si sogna di invocare uomini provvidenziali, unti del signore, tecnici di chiara fama, esperti super partes, strappi istituzionali, cittadini inesperti ma immacolati o comici convertitisi in agitatori di folle. Una crisi politica, in un Paese nel quale i politici possono anche clamorosamente sbagliare ma non hanno ancora rinunciato al proprio ruolo e alle proprie responsabilità, si risolve politicamente. 

Se ci spostiamo dalla Gran Bretagna alla Spagna, gli insegnamenti che se ne ricavano non sono molto diversi. Anche qui si è alle prese con una crisi politica seria e profonda, con un vero e proprio impasse istituzionale. Ci si è scoperti prigionieri di una legge elettorale concepita per un sistema bipartitico che nel frattempo è divenuto stabilmente tri- se non quadripartitico. Non sono bastate due elezioni politiche generali per sbloccare una situazione che sembrerebbe quella adatta per invocare, come unico rimedio, un bel governo presieduto da qualche super burocrate. Ma è esattamente il tipo di soluzione alla quale la classe politica spagnola di tutti i colori nemmeno vuole pensare, consapevole evidentemente che la neutralità della tecnica nella sfera politica è solo un inganno intellettuale: attraverso la retorica della competenza si finisce infatti per consegnare il governo della cosa pubblica a poteri che una volta ritiratasi o delegittimata la politica operano senza controllo e al di fuori di qualunque legittimazione popolare.

Un inganno dal quale ne discendono molti altri. Ad esempio la convinzione che una decisione presa velocemente, senza troppi dibattiti e sulla base di parametri che si suppongono oggettivi sia più politicamente efficace di una che matura dopo una lunga discussione e mediando tra interessi sociali contrapposti e fatalmente parziali. Ovvero che una decisione motivata solo dalle buone intenzioni personali e dalla dirittura morale di chi la promuove sia per questo quella più capace di soddisfare l’interesse generale e di fornire soluzione ai problemi.

Parlando di ciò che accade in democrazie come quella britannica o spagnola, si sarà capito che stiamo parlando in realtà dell’Italia. E un po’ anche dell’Europa. La prima continua a compiacersi della salutare rivoluzione che la sta attraversando: smascherati i vizi e le malefatte della politica i cittadini onesti si stanno finalmente riappropriando di ciò che è loro, senza più mediazioni o filtri. Lo diciamo in effetti da vent’anni e forse non è un caso che tra governi tecnici, appelli plebiscitari al popolo contro la casta, rivolte populiste e politici al potere forti solo della loro straordinaria inesperienza, essi siano stati i peggiori della nostra storia repubblicana. 

La seconda appare invece sempre più barricata dietro le sue algide e rigorose procedure tecniche, che dovrebbero metterla al riparo (insieme ai suoi cittadini) dalle volubilità tipica della politica, spesso troppo incline a seguire gli umori popolari. Peccato solo che gli umori in questione siano quelli che danno corpo e vitalità alla vita democratica. L’idea, circolata in questi giorni, che essi si debbano soffocare o sottoporre al vaglio preventivo di minoranze di sapienti basta da sola a spiegare perché una politica imperfetta sia sempre da preferire alla sua negazione nel nome di una virtù senza morale e di una conoscenza priva di intelligenza del mondo reale.
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