Cantone ha ragione, talento penalizzato

di Alessandro Orsini
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Domenica 25 Settembre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:35
Per molti anni i concorsi nelle università italiane sono stati organizzati per far vincere i candidati più raccomandati, senza prestare attenzione alle loro qualità scientifiche. In alcuni casi, vincevano i raccomandati bravi. In altri casi, i raccomandati mediocri. 

In un caso o nell’altro, non si andava avanti senza la raccomandazione. Tra un candidato molto raccomandato, e uno molto bravo, vinceva il primo. Non sempre, ma troppo spesso. Il problema non è indignarsi, ma comprendere come una potente minoranza di professori, i cosiddetti baroni, abbia potuto dare vita a un “sistema” che si è conservato negli anni, nonostante costringa le menti migliori del nostro Paese a migrare. Il sistema si basava sulla capacità dei baroni di trasformarsi in un blocco di potere, in grado di influenzare il Parlamento. L’obiettivo era quello di impedire l’introduzione di qualsivoglia criterio per valutare la qualità della ricerca accademica, che è alla base della progressione delle carriere in tutte le più importanti università del mondo. 

Il trucco è facile da svelare. I baroni si facevano inserire nei concorsi pubblici come commissari, prendevano visione delle pubblicazioni dei candidati, e dicevano: «Questo giovane studioso ha pubblicato un libro per una delle più importanti università del mondo e ha molti articoli sulle più prestigiose riviste internazionali. Però io voglio che vinca un candidato mediocre». Dal momento che nessuna legge stabiliva quali fossero le case editrici e le riviste più autorevoli, il barone poteva dire: «È vero, il mio candidato ha pubblicato i suoi articoli su riviste di una mediocrità impressionante. Però è un genio e un giorno anche l’umanità lo riconoscerà.

I geni, si sa, sono incompresi». Nessun candidato, o magistrato, poteva avanzare obiezioni legali. Qualche giovane studioso denunciava i fatti alla magistratura, ma poi la sua carriera veniva distrutta per spaventare gli altri. Pochi ricercatori qualificati trovavano posto nelle Università private di alto livello, molti altri lasciavano il Paese. 

E così ci siamo ritrovati con una facoltà pubblica di Economia, per citare uno dei tanti casi italiani, in cui ben sedici professori sfoggiavano lo stesso cognome. I baroni hanno imperversato nei concorsi pubblici, fino a quando una delle migliori riforme della storia dell’Italia repubblicana, la riforma Gelmini, ha stabilito che questo sistema doveva essere colpito al cuore. La Gelmini introduceva una lista di riviste scientifiche e diceva: «I ricercatori che pubblicano i loro articoli su queste riviste internazionali sono più bravi degli altri e devono vincere i concorsi pubblici, come accade nelle migliori università del mondo». 

Una parte dei professori universitari fu favorevole. Un’altra parte, invece, reagì in modo furibondo, utilizzando tre strategie per bloccare il cambiamento. La prima strategia fu quella di attaccare la Gelmini sul piano personale, cercando di farla apparire per quello che non era ovvero una donna incompetente che voleva distruggere l’università per puro sadismo. La seconda strategia, per fortuna adottata da pochi, fu quella di arringare centinaia di studenti nelle aule delle Università, riversando su di loro dosi massicce di demagogia e di disonestà intellettuale con la speranza di spingerli in piazza contro la riforma. Cosa che avvenne il 24 novembre 2010, quando un gruppo di studenti anti-Gelmini diede l’assalto all’ingresso del Senato, scontrandosi con la polizia. La terza strategia fu quella di sabotare la riforma che, una volta approvata, aveva bisogno di comportamenti accademici virtuosi per dare i suoi frutti migliori.

Le riforme vengono approvate dal Parlamento, ma vengono applicate dai professori universitari. Se una parte di loro opera contro le riforme, la colpa non è dei politici. L’università italiana ha causato la fuga dei cervelli per una volontà precisa. La mancanza delle risorse non è il fatto decisivo, il vero problema è culturale. In assenza di criteri per valutare la qualità della ricerca, compresa quella dei baroni, gli abusi si propagano. I professori onesti sono tanti, è vero. Ma se il governo concedesse un milione di miliardi alle università dominate dai baroni, butterebbe i suoi soldi. L’unica speranza per i cervelli in fuga si chiama “valutazione”. Una parola di cui i baroni hanno il terrore e che invece è ovvia ad Harvard, Mit, Princeton, Cornell, Oxford, Cambridge, per citare soltanto alcune delle più importanti università del mondo.

Le riforme politiche sono un tratto costitutivo delle società liberali perché sanciscono l’istituzionalizzazione del cambiamento. È la predisposizione al mutamento sociale che ha consentito alle democrazie liberali di diventare la civiltà più ricca, più libera e più potente della millenaria storia dell’uomo. Se l’Italia fosse un Paese meno ostile alla cultura delle riforme sarebbe un Paese più ricco, più libero e con meno ingiustizie.
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