«Il governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale». Recita così l'articolo 94 della Costituzione, secondo cui l'esecutivo rimane in carica soltanto finché può contare sul sostegno della maggioranza degli eletti sia alla Camera che al Senato. È quello che si saprà mercoledì, quando il premier Mario Draghi si presenterà a Montecitorio e a Palazzo Madama (non è ancora chiaro in quale ordine) per «rendere comunicazioni» al parlamento. E ricevere, appunto, la fiducia, da parte di deputati e senatori che dovranno sfilare uno per volta sotto il banco della presidenza al momento della "chiama" del proprio nome. E dire ad alta voce "sì" oppure "no".
Voto fiducia Draghi, prima al Senato o alla Camera? Il timing che divide le coalizioni. Ecco perché
Il voto di mercoledì
Un voto che potrebbe portare con sé qualche sorpresa.
Il leader 5 stelle ha ripetuto che si aspetta «risposte chiare» da Draghi sui 9 punti che gli ha sottoposto (difesa del reddito di cittadinanza, superbonus, salario minimo eccetera). Risposte che potrebbero anche arrivare nel discorso che il premier pronuncerà in Parlamento. Se così non fosse, sembra probabile che almeno una parte del Movimento possa decidere di sfilarsi dall'esecutivo. Magari garantendo a Draghi un appoggio esterno. Ossia: ritiro dei ministri e sostegno in parlamento per andare avanti qualche altro mese. Opzione che Draghi ha già fatto sapere di considerare, di fatto, come una sfiducia.
INCOGNITA CENTRODESTRA
A complicare l'orizzonte dell'esecutivo c'è pure l'incognita centrodestra. Perché Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno messo in chiaro di non voler continuare a governare coi Cinquestelle. Ma c'è chi scommette che potrebbero accettare di farlo con una parte di loro, i fuoriusciti "responsabili".
Il momento della verità sarà proprio mercoledì. Quando, a seconda di come sarà finito il voto, potrebbero aprirsi almeno tre scenari diversi. Il primo: i grillini si ricompattano sul sì e danno il proprio appoggio al governo. La maggioranza (per quanto più precaria all'apparenza rispetto a qualche settimana fa) è formalmente intatta, dunque Draghi non si dimetterebbe.
GLI SCENARI DOPO IL VOTO
Potrebbe salire al Colle per riferire l'esito del voto e ritirare le sue dimissioni, "congelate" una settimana fa da Sergio Mattarella. Seconda ipotesi: il premier ottiene la fiducia, ma solo da una parte degli eletti stellati che si spaccano. A quel punto la scelta è in mano a Draghi, che aveva fatto sapere di non considerare un governo senza Movimento 5 stelle. Ma che potrebbe averci ripensato, visto il pressing degli ultimi giorni prodotto dalle decine di appelli indirizzati al capo del governo (da parte di sindaci, cancellerie internazionali, categorie economiche) per pregarlo di restare. L'ex capo della Bce potrebbe dunque scegliere di andare avanti, anche con una maggioranza più stretta rispetto a quella del suo insediamento, oppure rimanere fermo sulla volontà di dimettersi perché è venuta meno "l'unità nazionale".
In questo ultimo caso, si recherebbe al Quirinale a consegnare dimissioni "irrevocabili" al presidente della Repubblica. Che a quel punto non potrebbe far altro che accettare l'addio del premier e aprire le consultazioni. Terza ipotesi, al momento data come meno probabile: i Cinquestelle decidono compatti per la sfiducia. Di nuovo, sarebbe Draghi a dover decidere cosa fare (la maggioranza senza M5S è comunque garantita dai gruppi di Luigi Di Maio). A meno che anche la Lega e Forza Italia non decidano di sfilarsi dalla maggioranza e andare alle urne. A quel punto la strada sarebbe tracciata: dimissioni, apertura della crisi, voto a settembre-ottobre.