Ha cambiato il linguaggio. E’ stato uno straordinario inventore di formule pop. L’opposto, per esempio, dei dirigenti della Prima Repubblica che coniarono le «convergenze parallele» o altre definizioni da politichese. Il berlusconese - a cui fu dedicato un libro diventato classico e più volte ristampato: «Berlusconate» di Alessandro Corbi e Pietro Criscuoli, i massimi semiologi europei della lingua del Cavaliere - si compone di barzellette (inimmaginabile che De Gasperi o Moro ne potessero raccontare ma Silvio è Silvio: «La sapete quella di Romolo, Remolo e il sottoscritto?») e di inediti lessicali diventati leggendari. Abbiamo cominciato, a un certo punto, tutti a parlare un po’ come Silvio. Esempio: «Ma tu ce l’hai il sole in tasca?». Oppure: «Attenzione ora scendo in campo io!». E per gioco, invece di mandare a quel Paese un amico o un rivale, gli abbiamo detto, scimmiottando Berlusconi, anche senza amarlo o addirittura disprezzandolo: «Sei proprio un comunista!».
Le parole del Cav
Le parole del Cav sono diventate linguaggio collettivo pur evidenziando sempre il proprio marchio di fabbrica e nessuno ha saputo parlare alla Berlusconi quanto riusciva al titolare. «Rivoluzione liberale»: a lui si deve, dopo che a Piero Gobetti (solo Silvio poteva inventarsi questo accostamento con il giovane martire anti-fascista, scandalizzando la sinistra), questa formula rimasta tale, perché tutto e il contrario di tutto ha fatto nella sua lunga parabola esistenziale Berlusconi tranne che rendere l’Italia liberale (del resto questo Paese, al netto di Silvio, è cromosomicamente anti-liberale).
Elogio della follia
E ancora: viene il dubbio, dopo che lui ha ripetuto milioni di volte questa espressione, che «elogio della follia» sia più di Berlusconi da Arcore che di Erasmo da Rotterdam. «Un milione di posti di lavoro» e «meno tasse per tutti» spiccano - insieme «il miracolo italiano» e al «nuovo miracolo italiano» - nella linguistica dell’ex premier.
Il premier operaio
Ma anche, più laicamente, il «premier operaio» o «il premier ferroviere» (quando indossò il cappello da capotreno) o il «premier spazzino» quando disse di voler ripulire con le proprie mani Napoli sommersa dai rifiuti. «Gli italiani - parola di Cav - sanno al massimo cento parole, bisogna ripetere sempre quelle per farsi capire e quindi per farsi votare». Ma lui ne diceva molte di più, e così le «berlusconate» sono quasi diventate l’idioma nazionale ma nessuno lo ha saputo parlare e giocarci come lui. Il premier linguista.