Che sinistra sarà: i dem al bivio tra turborenzismo e stile post-Dc

Che sinistra sarà: i dem al bivio tra turborenzismo e stile post-Dc
di Mario Ajello
6 Minuti di Lettura
Giovedì 8 Dicembre 2016, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 09:32

No il dibattito, no. Ma ad alcuni dei partecipanti alla direzione del Pd, renziani e non renziani, è parso che il premier-segretario abbia cambiato tono. Più morbido. Più umano. Anche se «al voto, al voto!» continua ad essere la sua vera opzione. E’ in via di re-democristianizzazione il Matteo che idolatrava Ciriaco De Mita e una foto iconica immortala il rapporto; che da quella storia, nei suoi ultimi tratti, proviene; che ha avuto nella Margherita post-Dc la sua palestra e il suo trampolino; e che adesso si trova in una fase in cui il troncare e sopire alla Mattarella è diventato la cifra di questa stagione politica improvvisamente passata dal turbo-renzismo alla pacatezza e alla ponderazione della ricerca di nuovi equilibri? Di sicuro, il big bang referendario ha scombussolato, in maniera cruenta ma con prospettive aperte, la natura che la sinistra intesa come Pd si era data in questi anni di rottamazione politico-culturale e di ricerca anche disordinata del “nuovo”. Ora una stagione è finita, e come sarà il Pd lo vederemo al congresso del 2017. Ma intanto, se Renzi (bis o non bis, 40 per cento di Sì tutti suoi oppure suoi soltanto in parte, urne subito oppure urne poi come egli paventa perché il tempo lungo rischia di logorarlo) resta personaggio centrale e ancora forte nel paesaggio italiano, il renzismo come è stato inteso finora è al tramonto. 

LA FASE NUOVA 
Si è per il momento concluso, insomma, un tentativo, baldanzoso, di cambiare i connotati ideali e comportamentali della sinistra, rimasti ancora ancorati per molti aspetti alle tradizioni novecentesche. Il professor Beppe Vacca, storico della filosofia, studioso dei partiti politici, una forte storia personale che viene dal Pci e attivo sostenitore della riforma Boschi in questo referendum, non arriva a dire che sarà il ritorno di Renzi alla culla di sapienza mediatrice di tipo democristiano (una sorta di ritorno al futuro) a ridargli spinta e consapevolezza delle cose ma un po’ il discorso si avvicina a questo. «Prevedo», spiega Vacca, «una maggiore vitalità della cultura del cattolicesimo democratico. E non sto parlando ovviamente della Dc, che è finita da più di vent’anni. Ma di qualcosa che la precede e che le succede. Nel Pd, questa cultura si è già mostrata più vitale e più elastica rispetto a quella che viene dal Pci-Pd-Ds. Di questa cultura, Mattarella è la proiezione al Quirinale. E Renzi ha le sue particolarità, ma da lì nasce, a quel terreno appartiene. E il ricollegarsi a quel modus operandi, molto diffuso ma ultimamente in sonno nel suo partito e basato sulla sapienza dell’inclusione e non sulla contrapposizione, è una chiave per dare nuovo senso e nuova prospettiva alla sua centralità politica che al momento è un dato di fatto». 

IL TRAUMA
Si tratta in generale di vedere quale fisionomia avrà il Pd post-trauma. «Il punto di partenza - osserva Nando Pagnoncelli, uno dei pochi sondaggisti che ci azzecca - è quello di un partito non del 40 per cento, come alle Europee e come tuttora sembra credere Renzi, ma del 30 per cento. Il grado di fiducia degli italiani nei confronti di Renzi è ancora alto, il 36 per cento, dietro solo a Mattarella che ha il 61. Ma non bisogna confondere: il grado di fiducia non è traducibile in voti nell’urna in caso di elezioni». Ma questo i falchi di Matteo lo negano. Ed eccitano il capo a rilanciare il nocciolo duro del renzismo, a non farsi placare dalle difficoltà, a ripartire all’assalto come se nulla fosse accaduto. E’ stato questo, ieri, il tenore delle conversazioni, per chi le ha origliate, tra Francesco Bonifazi, Alessia Morani, Alessia Rotta e Paolo Ermini (tutti dell’ala turbo-Matteo), riuniti a pranzo al ristorante Il Sostegno (il nome dice tutto) a due passi dal Pantheon. Ed è questo il mood, anche di Luca Lotti e di Maria Elena Boschi. Ossia forzare sulle urne e forzare sul partito. E quanto al possibile nuovo premier, è Gentiloni il prediletto dai renzisti. Più lui che Franceschini su cui grava un problema: «Ha il sostegno di D’Alema». Chissà se è vero. E comunque l’impatto del No è stato così devastante sul Pd in questi giorni che ieri, durante la direzione al Nazareno, qualcuno - ma questa è una battuta - per rilassarsi guardava nel telefonino i bombardamenti su Aleppo. 
Al di là dei motteggi, sulle macerie del renzismo 1.0 e sulla baldanza della Ditta e del dalemismo che hanno segnato un punto a scapito dell’«usurpatore», l’opzione socialdemocratica potrebbe prendere spazio e affermarsi e a quel punto, con buona pace dei fondatori, Prodi e Veltroni, il Pd diventerebbe simile ai suoi parenti europei. Che però se la passano malissimo. Basti pensare a come sono ridotti i socialisti francesi, precipitati al 4 per cento nei sondaggi con il fallimentare Hollande che s’è dimesso e il ballottaggio delle presidenziali ad aprile vedrà la destra di Marine Le Pen e il centro-destra di Fillon in gara, senza la sinistra. In Inghilterra, inutile dire della penosa parabola del Labour in mano Corbyn. Idem in Spagna. Mentre in Germania, la Spd ai minimi termini si aggrappa probabilmente a Schultz - ex presidente dell’Europarlamento - per andare dritto alla sconfitta contro Merkel, nella speranza che Frau Angela poi ripeschi i socialdemocratici per una riedizione della Grosse Koalition. Ecco, un improbabilissimo Pd ri-bersanizzato questo sarebbe, un richiamo della foresta fuori tempo massimo: e l’opposto (debole) dell’opzione nocciolo duro renziano e un salto all’indietro rispetto a un cattolicesimo democratico riveduto e corretto in chiave post-Dc. 

LE REPUBBLICHE
Naturalmente, la fisionomia del partito deriverà anche dal tipo di legge elettorale su cui ci si accorderà. Tutto fa pensare al grande ritorno del proporzionale. Il referendum sembra avere staccato la spina, oltre a tutto il resto, anche alla boccheggiante Seconda Repubblica e in prospettiva si delinea un modello Prima Repubblica (si spera assai rivisitato) nel quale il Pd a vocazione maggioritaria, quello che fu di Veltroni ed è convintamente diventato quello di Renzi, ci si troverebbe come un pesce fuor d’acqua. «Io non credo che sia proprio così», obietta Vacca, «perché non avremo un proporzionale puro ma corretto con un premio di maggioranza. E in questo sistema, un partito a vocazione maggioritaria lo può essere da solo o per capacità di coalizione». Di sicuro però, nell’epoca che si sta delineando, quella delle grandi intese al cospetto dell’avanzata grillina, tutti i partiti sono destinati a diventare cantieri e case in ristrutturazione. Non solo il Pd, ma anche per esempio Forza Italia, a sua volta un fenomeno nato, cresciuto e connaturato all’ambito bipolare ormai sostituito da un tri o quadripolarismo con cui ognuno deve fare i conti. E se la somma finale sarà quella dell’inconcludenza di coalizioni pasticciate, mutevoli e mutanti - un po’ l’effetto Repubblica di Weimar, anche se il paragone giustamente spaventa ma la storia fortunatamente non si ripete - il danno che ne deriverebbe al Paese sarebbe enorme. 

ALLEANZE
Proprio in vista del proporzionale, Giuliano Pisapia ha lanciato il Campo Progressista, che guarda anche alla sinistra Pd per attrarla (in caso di scissione) in un soggetto di sinistra radical-innovativa, pronto a fare coalizione elettorale e politica con il Pd. Che a quel punto potrà essere un partito democratico-riformatore a un patto, però. Come spiega Emanuele Macaluso, che di queste storie sa tutto: «La neo-democristianizzazione del Pd senza la forza di Renzi non si può fare. Franceschini, Gentiloni, Delrio e gli altri hanno il Quirinale dalla loro parte, ma non apriranno mai una battaglia politica contro Renzi. Gestiranno loro il Pd insieme a un Matteo, che probabilmente sarà diverso da quel che è stato finora». 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA