La guerra tra principi che cambierà il Golfo

La guerra tra principi che cambierà il Golfo
di Fabio Nicolucci
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Mercoledì 8 Novembre 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 9 Novembre, 12:37
Chi vuole una nuova guerra in medioriente? Sinora la causa dello sconvolgimento che ha colpito la regione in generale e il Levante e il Golfo in particolare è sempre stato ritenuto il conflitto siriano. Qui infatti si sono giocate dal 2011, sulla pelle del popolo siriano, le partite prima politiche e poi militari della lotta per l’egemonia regionale. Riaperti con l’intervento in Iraq del 2003 i giochi di potere fermi da decenni, qui si sono misurati con ogni mezzo e senza alcuno scrupolo l’Arabia Saudita, il campione uscente, e l’Iran, lo sfidante al titolo. Ma l’intervento russo alla fine del 2015 ha in un certo senso “congelato” la situazione. Diventato inutile e oramai distrutto il teatro siriano, che rivela così la sua crudele natura di teatro secondario e di comodo, il conflitto è quindi rifluito verso il Golfo.

LA SCELTA DEL RE
Il terremoto che ha investito negli ultimi giorni la casa regnante dei Saud in Arabia Saudita è in questo senso rivelatore. Non tanto per i metodi spicci e le accuse generiche con cui il neo principe ereditario Mohammed bin Salman ha voluto dimostrare di essere al comando, dopo che nel giugno scorso il Re Salman suo padre aveva infine deciso per la propria linea dinastica diretta al posto di quella del precedente re e fratello, spodestando il nipote Mohammed bin Nayef dalla successione. La storia della casa regnante è punteggiata da lotte intestine, e non è certo l’arresto di 11 principi – come il Principe Al Walid bin Talal – e altre decine di importanti e ricchi esponenti della nomenclatura che può segnare una svolta nella tradizione. Basti ricordare l’assassinio per mano di un familiare del re Faisal nel 1975.

I TRE STRUMENTI
La vera rottura è stata nelle modalità con cui questa svolta è avvenuta. Per la prima volta nella storia dello Stato i tre strumenti a garanzia della forza della casa regnante – l’esercito, i servizi segreti e la guardia nazionale – sono stati messi sotto il controllo di una sola persona, il principe ereditario bin Salman. Per decenni il loro controllo è stato suddiviso tra i vari rami della casa regnante, fossero essi destinati al supremo potere – il Re è anche il Custode dei due Luoghi Santi, Mecca e Medina – oppure solo a godere delle ricchezze del loro regno. Questa volta la non scritta tradizione politica è stata spezzata. E non a caso tra gli arrestati vi è anche il principe Mut’ib, fino a sabato scorso a capo dei servizi segreti. 

TRADIZIONE SPEZZATA
Questa tradizione si è spezzata per ragioni strutturali. Se infatti il regno saudita è una proprietà di famiglia, decidere chi decide sulla terra saudita - e soprattutto su ciò che è sotto di essa – è cosa dinastica. Il problema si è cominciato a porre con il progressivo invecchiamento dei figli del fondatore – il re attuale, ultimo dei figli di Ibn Saud, ha 81 anni - e con l’avvicinarsi del momento nel quale si sarebbe trattato di decidere quale ramo della terza generazione. Qui il criterio dinastico diviene inservibile, perché i principi di terza generazione sono qualche migliaio. 

UNA ROTTURA INTERNA
I recenti arresti non sono dunque il segno di un consolidamento nel regno di una politica riformista bensì di una rottura interna alla Casa dei Saud. Una rottura nella concezione del potere che viene amplificata dalla visione di bin Salman sulle cause – e quindi sui rimedi – del relativo indebolimento dell’Arabia Saudita nella regione. Per lui tali cause sono sull’altra riva del Golfo, e si chiamano Iran. La cui ascesa non è vista come il sintomo del cambiamento degli equilibri di potenza globali, bensì come la causa. Una lettura irrealistica e velleitaria, e per questo pericolosa. Come dice anche la borsa del Kuwait, crollata nel panico in questi ultimi tre giorni. Velleitaria, perché l’Arabia Saudita non ha la forza per condurre guerre in prima persona. 

LE DIMISSIONI DI HARIRI
E dunque pericolosa, perché ha come unico sbocco la trasformazione di crisi interne in guerre regionali per procura. Come in Siria o nello Yemen. Oppure come si tenta adesso di fare in Libano, con le improvvise dimissioni annunciate sabato da Ryahd del premier Saad Hariri, un protetto saudita. Con l’idea di creare un vuoto di potere in Libano a favore di Hizballah, spingendo così Israele – e magari anche gli Usa - ad intervenire su vasta scala. I mercati e gli investitori esteri non paiono gradire. Resta da vedere se l’iranofobia di bin Salman farà proseliti in occidente. Perché allora saranno dolori. 
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