Sulla banchina 4 del porto di Haifa i marines israeliani lustrano i mitragliatori sotto il sole cocente, pronti a salpare per una nuova missione. La nave “Freccia” è una lanciamissili di 62 metri con «un assetto particolarmente offensivo», conferma il capitano Elrom, del quale è impossibile conoscere il cognome. La corvetta, dicono con orgoglio i militari a bordo, è «una delle navi avanguardia dell’esercito israeliano», ma salire a bordo è come fare un passo indietro nella storia. Le pareti di ferro di questa macchina da guerra creano un effetto rimbombo per ogni rumore e gli spazi ristretti farebbero soffrire di claustrofobia chiunque. Si sale su una scaletta angusta e quando il portellone corazzato si riapre, con un cigolio disturbante, ci si ritrova sul ponte principale. Missili antinave e razzi per la difesa aerea occupano la parte centrale della nave, mentre la prua è occupata da un possente cannone da 76 millimetri, prodotto in Italia dalla Oto Melara . «Questo lo usiamo per distruggere i bunker di Hamas sulla costa», spiega il giovane capitano: «È un’arma micidiale in uso a tutta la Marina israeliana».
LA BATTAGLIA
L’ufficiale staziona sul ponte di comando e non indossa il basco, lo tiene sotto la spallina con i gradi: «Da qui vengono impartiti gli ordini, si dirige la battaglia».
«La Marina è stata fondamentale per scongiurare questi attacchi - spiega il capitano -. I terroristi avevano un solo obiettivo: uccidere più ebrei possibile. Il mio compito invece è salvare quelle vite e assicurarmi che la mia popolazione possa vivere libera in Israele».
La tregua ha tenuto ancorata la Freccia per quasi una settimana ma ora i marines sono pronti: «Abbiamo già preso parte a diverse operazioni, sempre in collaborazione con tutte le altre unità dell’Idf, quelle aeree e di terra, ora siamo pronti a salpare nuovamente per Gaza».
L’EQUIPAGGIO
Sotto al lanciamissili del ponte inferiore la tenente Shelly, appena ventenne, è intenta a dirigere i marinai di grado inferiore: «Sono arrivata dalla Francia tre anni fa per entrare nell’esercito, sapevo che Israele è la mia casa e volevo fare qualcosa per difendere lo stato. Essere arruolata nell’esercito durante una guerra è il modo migliore per sostenere il proprio paese».
Nonostante l’età Shelly sembra molto determinata e indottrinata a dovere: «Non ho paura, sono convinta che l’esercito israeliano sia davvero molto forte. La società israeliana è molto unita e questo mi dà ancora più forza». Parla un italiano quasi perfetto ma quando le chiediamo della sua famiglia fatica a trattenere l’emozione: «Sono molto preoccupati, parliamo spesso, sono sempre connessi, leggono i giornali e si informano online, sono molto fieri di me».
VITA AL LARGO
Il portellone che dà sulla cambusa vicino al cannone principale è aperto, sbuca la testa di un marinaio giovanissimo con il berretto in testa e lo smartphone tra le mani: «Ho due amici a Gaza che stanno combattendo. Mi scrivo con loro per sapere come stanno, loro mi chiedono delle mie missioni in mare».
Vivere su una nave da guerra significa disconnettersi dal mondo e anche dalle comunicazioni: «Quando salpiamo siamo senza segnale, leggo le loro risposte quando torno a terra. È importante però restare in contatto, condividere le nostre esperienze di guerra». Il pensiero va anche qui alle famiglie che li aspettano a casa: «Mia mamma si preoccupa, vorrebbe che ci sentissimo almeno una volta al giorno, a volte non riesco a sentirla per una settimana o più. Ma è così che funziona la guerra».