Pietro Scalia, un gladiatore in moviola

Pietro Scalia, un gladiatore in moviola
di Fabio Ferzetti
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Lunedì 28 Luglio 2014, 18:14 - Ultimo aggiornamento: 18:15
Da ragazzo sognava di fare il regista, come Herzog, Schlndorff o Truffaut, i miei idoli. Poi ha scoperto che la migliore scuola di cinema è la sala di montaggio e dopo qualche anno di gavetta con Oliver Stone («un film dopo l’altro, da Platoon a Talk Radio e Nato il 4 luglio... anni indimenticabili...») è diventato uno dei più grandi montatori del mondo. Quattro candidature all’Oscar, due statuette (la prima vinta al suo esordio col Jfk di Stone, il sogno proibito di ogni film editor col suo mix vertiginoso di formati, punti di vista, piani narrativi) e fino ad oggi una trentina di titoli a cui ha dato ritmo, forma, logica profonda. Tra cui Il piccolo Buddha e Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci. Più quasi tutti i film di Ridley Scott degli ultimi vent’anni incluso Black Hawk Down, suo secondo Oscar.



Figlio di emigrati Eppure Pietro Scalia, nato a Catania nel 1960 da genitori emigrati subito dopo ad Aarau, Svizzera, è rimasto il ragazzo con il cinema nel sangue che a 18 anni andò a studiare a Los Angeles grazie ai risparmi di casa e a una borsa del suo cantone. «Pensavo di starci quattro anni, invece rimasi ne sette, sempre grazie alle borse di studio svizzere. L’Italia per me era il paese delle vacanze, ci andavo d’estate con la famiglia, per il resto mi rimpinzavo di classici in tv, La strada, Ladri di biciclette, Paisà. E Totò, l’immenso Totò, che ancor oggi guardo per nostalgia. Erano le nostre radici e il mio orgoglio. Per noi di seconda generazione, cresciuti bilingui, era facile, ma per i nostri genitori è stata dura».



Capalbio Il cinema insomma era il sogno, il riscatto, la possibilità di reinventare il mondo. Missione compiuta: oggi Scalia ha 54 anni e nel suo campo è una star. Alla masterclass che ha tenuto al festival di Capalbio, in prima fila ad ascoltarlo c’erano illustri colleghi come Cecilia Zanuso e Roberto Perpignani. Venuti a sentirlo parlare di ritmo, musica, immagini interiori. Come quella ormai celebre con cui si apre Il gladiatore di Scott, una sua idea.



Gladiatori e mulini bianchi «Ho scoperto che nel mestiere la chiamano gladiator shot», sorride Scalia. «È l’inquadratura di Russell Crowe che passa la mano sul campo di grano. Un’immagine imitatissima, un po’ da Mulino Bianco - ride - che riassume tutti i temi del film. E con quello “stacco” violento tra totale e primo piano ci porta immediatamente dentro l’eroe. E dentro lo spettatore».



“Montare” i pensieri Perché è questo il vero potere del montaggio: provocare e intercettare pensieri e sentimenti della platea. «Il viaggio dell’eroe non è fatto solo di azione. La trasformazione è interiore». Il montaggio deve accordare il ritmo visivo del film con quello, segreto, del cuore. Ma è un lavoro lungo e minuzioso. Un lavoro da artigiano e in qualche caso da artista. Che sceglie registi e film seguendo anche la propria intuizione. Stabilendo con loro una complicità creativa molto forte.



Nove mesi Il montaggio dura nove mesi, a volte un anno», riprende Scalia. «Si crea un rapporto molto intimo col r4egista, Per questo ho fatto tutti i film di Ridley Scott da Soldato Jane in poi ne avrò saltati due o tre. Ma di coppie fisse nella storia del montaggio ce ne sono parecchie. Ieri David Lean, oggi Steven Spielberg, Martin Scorsese, Michael Mann, Tim Burton, Ron Howard, lavorano sempre tutti con gli stessi montatori... Per noi però è importante scegliere lavori che permettano di crescere e imparare sempre qualcosa di nuovo.



Complice Anni fa mi proposero Face/Off di John Woo. Ammiro Woo, ho esitato a lungo, ma in quel momento non volevo fare un film d’azione, cercavo bei dialoghi, qualcosa di profondo». Pochi lo sanno infatti, ma il montatore è il primo complice del regista. È lui a fare la prima stesura del film, mettendo in fila tutte le scene previste dalla sceneggiatura per dare una prima forma al girato che arriva giorno per giorno. Lui che poi si inabissa col regista alla scoperta del film ideale, nascosto in tutte quelle ore di immagini...



Final cut «Fino a quando il montaggio dell’autore, il director’s cut, non è pronto. Allora, e solo allora, il film viene mostrato ai produttori, che intervengono con proposte e consigli. Prima nessuno vede niente, nella maniera più assoluta! Per questo la prima proiezione è così importante. Si crea una situazione delicata, molto politica. A Hollywood solo i più grandi, Spielberg, Scorsese, Scott, ieri Stone, hanno diritto al final cut, ovvero all’ultima parola sul montaggio. Ma nessuno cerca di usarlo. È l’ultima spiaggia, l’arma segreta. Bisogna trovare un accordo, il film deve piacere a tutti. Solo così sei sicuro che poi la produzione spingerà davvero il film. E poi, intendiamoci: è molto più facile avere il final cut se fai un film che costa poco. Ma da 60 milioni di dollari diventa molto più complicato...».



Italia/Usa Chissà se anche in Italia i produttori entrano in moviola solo all’ultimo. Sospettiamo che non sia proprio sempre così. Ma anche i registi italiani, a occhio, sono molto meno disposti a trattare, molto più “divi”, soprattutto se hanno un nome. O è solo un’impressione? Scalia non commenta, non conosce abbastanza bene il cinema italiano. In compenso sa che non è mai facile per chi fa il suo lavoro ottenere la giusta attenzione da parte del grande pubblico, e talvolta anche degli addetti ai lavori.



Scorsese «Quando vinsi l’Oscar per Jfk di Oliver Stone ero molto giovane, molti dicevano ma sì, avrà fatto tutto Stone...». Oggi è diverso ma del montaggio si finisce per parlare solo se qualcosa non piace. «Certamente, e magari si critica la lunghezza del film. Ultimamente è successo con The Wolf of Wall Street di Scorsese. Conosco bene quel film, lessi la sceneggiatura a suo tempo, Di Caprio lo aveva proposto a Ridley Scott prima che a Scorsese, ma Ridley era già impegnato con Prometheus. Oggi molti lo trovano prolisso, ma come si fa a criticare il lavoro di Thelma Schoonmaker, da sempre la montatrice di Scorsese? C’è un’energia incredibile in quello che fa. Il film non è “lungo”, quello è il suo stile, lo puoi criticare se non ti piace, ma non c’è proprio nulla di sbagliato».

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