Intervista all'ad di Unicredit Ghizzoni: «Daremo alle imprese 120 miliardi in quattro anni»

L'ad di Unicredit Federico Ghizzoni
di Osvaldo De Paolini
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Lunedì 14 Luglio 2014, 08:02 - Ultimo aggiornamento: 9 Settembre, 19:28
Federico Ghizzoni, lei guida la prima banca italiana in Europa che in Germania seconda solo a Deutsche Bank. Ha perciò una conoscenza della realtà di quel Paese e degli umori dei suoi cittadini che pochi possono vantare. Dopo un lungo periodo di crescita, da qualche tempo anche Berlino ha qualche problema: la forte caduta della produzione industriale a maggio è un segno.



Come spiega che di fronte alla crescente richiesta di minore rigidità nel rispetto del Patto europeo, i tedeschi continuano a mantenere il loro diniego? Non sarebbe interesse anche loro agevolare il processo di crescita delle economie che più hanno sofferto?


«Non vorrei contraddirla, ma penso che a Berlino l’esigenza di maggiore flessibilità sia abbastanza condivisa. Quantomeno ora se ne parla. E posso aggiungere con una certa sicurezza che questa maggiore propensione verso la crescita è genuina. L’atteggiamento un po’ dubbioso verso gli italiani è per il fatto che i tedeschi vogliono capire meglio quanta volontà abbiamo davvero di condurre a compimento le riforme. Se riusciremo a presentare programmi chiari con tempi di realizzazione credibili sono convinto che la Germania sarà al nostro fianco. L’apertura c’è, bisogna riempirla di contenuti».



Nondimeno, gli esponenti del governo Renzi, a cominciare dal premier, faticano a raccogliere piena adesione alle proposte italiane. Quanto è davvero credibile Renzi in Europa?

«La credibilità di Renzi non è in discussione nè in Europa nè in Germania. Di ciò ho prove quotidiane. Dietro l’apparente contrarietà di alcune voci, a mio avviso c’è anche la necessità di gestire un’opinione pubblica, non solo tedesca, che negli anni passati ha pagato sulla propria pelle il prezzo di riforme pesanti e ora non vorrebbe pagare per gli errori di altri. Penso che i toni a volte esasperati servano anche a placare queste ansie».



Lei parla di riforme da realizzare a breve, ma c’è riforma e riforma. Quali, secondo lei, quelle che potrebbero convincere la Germania della nostra buona fede?

«I tedeschi sono interessati a tutto ciò che riguarda il rilancio della nostra competitività. Un esempio di riforma che farebbe certamente crescere la nostra credibilità è l'accelerazione nel pagamento dei debiti che la Pubblica Amministrazione ha contratto con le imprese private».



Che cosa temono maggiormente i tedeschi?

«Dobbiamo rassicurarli sul tema della messa in comune del debito. Gli eurobond sono senz’altro una buona idea, ma dobbiamo convincerli che non è un modo per scaricare su di loro l’onere del nostro debito».



Insomma, lei è davvero convinto che anche a Berlino il vento sia cambiato.

«Vuole una prova? Se si esclude qualche voce dissonante, nessuno ha obiettato davanti alle recenti decisioni della Bce di immettere nel mercato liquidità importante per rilanciare i consumi e impedire che la china deflazionistica si consolidi».



E ci mancherebbe, visto che non si tratta di liquidità destinata a produrre nuovo debito.

«Vero, ma le misure annunciate da Draghi non sono certo in sintonia con la politica di austerità che i tedeschi pretendevano fino a qualche tempo fa. La strada è tracciata, non bisogna mollare».



Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e falco irriducibile, è intervenuto a gamba tesa contro la richiesta del governo italiano di applicare con maggiore flessibilità le regole del Patto di stabilità. Non è certo un buon segno, visto il ruolo che riveste.

«Weidmann è certamente una figura molto importante in Germania, ma non rappresenta né il governo né la politica tedesca».



E se a parti invertite si fosse espresso Ignazio Visco sulla politica di Angela Merkel?

«La risposta sarebbe stata analoga a quella del governo italiano».



A proposito di Visco, parlando all’assemblea dell’Abi il governatore della Banca d’Italia ha dichiarato: «La capacità di valutare il merito di credito va rafforzata: non deve basarsi solo sugli automatismi di modelli quantitativi, ma avvalersi del contributo di personale esperto e competente, con un patrimonio di consolidata conoscenza della clientela». Non le sembra una svolta formidabile rispetto ai criteri esclusivamente numerici che di recente avevano qualificato la moral suasion della Banca d’Italia?

«Abbiamo tutti apprezzato quel passo della relazione. Aspettavamo quelle parole. Ora si lavorerà meglio. Del resto, in Unicredit da almeno tre anni ci ispiriamo al principio ”conosci il tuo cliente”. La visita in azienda è fondamentale così come lo è parlare con il cliente. Conoscendolo meglio, si evitano errori di valutazione che spesso hanno alla base il rispetto esclusivo dei modelli numerici».



Non tutti però la pensano così a Francoforte. Come valuta la pretesa della Bce di costringere le banche a recepire nel loro bilancio, condizionando in tal modo la valutazione del rischio di ciascun cliente, l’esito delle indagini campione acquisito nel corso delle asset quality review?

«Non si tratta di un obbligo, ma di un invito. Credo che la decisione della Bce discenda dalla necessità di applicare regole omogenee in tutta Europa, visto le notevoli differenze in vigore nei diversi sistemi. Per le banche italiane sarà comunque un vantaggio: oggi subiamo una concorrenza effetto anche della maggiore rigidità delle nostre regole di vigilanza».



E non anche per la maggiore imposizione fiscale?

«Il tema del maggior peso fiscale sui bilanci delle banche italiane è un dato oggettivo. Va sfatato il luogo comune che le banche possono resistere a tutto, perché così non è. Con l’Unione bancaria parte un mercato più aperto, piu' omogeneo e più competitivo. É chiaro che nel confronto europeo chi ha condizioni e regole domestiche più penalizzanti sarà sfavorito nella competizione. E questo certamente non è un bene per il Paese. Piaccia o no, prima o poi si dovrà prendere atto che le banche italiane sono quelle che sopportano il peso fiscale più alto in Europa. E dovendo operare in un mercato unico, a ciò si dovrà porre rimedio».



La preoccupa il dato in caduta della produzione industriale a maggio? Il fatto che sia comune a Francia e Germania non consola, anzi accresce l’ansia.

«Si tratta di un dato congiunturale, da non sottovalutare ma nemmeno da enfatizzare. Non vediamo ancora elementi che ci inducano a cambiare la nostra previsione di crescita per il2014, che sarà pure modesta, ma ci sarà».



Il cavallo però continua a non bere e se la crescita delle sofferenze va rallentando, il trend dei prestiti langue. Che fare?

«In generale a noi risulta che la situazione abbia cominciato a dare segni di miglioramento, il dato delle sofferenze in frenata è importante. Non dobbiamo guardare alla situazione prima della crisi, agli anni 2007 o 2008, ma all'evoluzione anno su anno».



E la situazione cambia?

«Di molto. La tendenza è generalmente positiva, ma se guardo a Unicredit il miglioramento è impressionante. Soprattutto in Italia, già tornata ad essere uno dei grandi motori che tirano la crescita del nostro gruppo. Basti dire che in questi mesi i nostri mutui casa sono cresciuti del 250% rispetto a un anno fa, il credito al consumo del 7-8%, i finanziamenti alle medie imprese sono più che raddoppiati».



Hanno dunque ragione i fondi stranieri che sono tornati a scommettere sull’Italia?

«Sì. Poche chiacchiere e fatti concreti: Unicredit sta assumendo 1.500 giovani, tra qui e il 2018 investiremo in Italia 1,5 miliardi, nello stesso periodo puntiamo a erogare nuovo credito per 120 miliardi».



Questo anche grazie al nuovo piano di interventi che la Bce si appresta a realizzare.

«Sicuro. Sarà per tutti un contributo importante. Unicredit si è già impegnato a finanziare a tassi particolarmente competitivi, (4-4,5%) le aziende che ci sottoporranno nuovi investimenti. Però bisogna che al cavallo torni la sete, perchè finora non sono molti gli imprenditori che ci chiedono di finanziare seri progetti industriali, i soli che possono creare nuova occupazione e rilanciare il Paese».
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