Teatro dell'Opera/ Dopo il dramma finale all'Italiana

di Oscar Giannino
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Lunedì 24 Novembre 2014, 22:30 - Ultimo aggiornamento: 25 Novembre, 00:18
Come nella Serva padrona di Pergolesi o Paisiello, al Teatro Costanzi di Roma quel che è nato poche settimane fa come dramma, ieri è culminato in un tipico finale all’italiana.

Il licenziamento di oltre 180 orchestrali e membri del coro aveva fatto gridare al precedente di benefica rottura, rispetto al consolidato pessimo andazzo dei teatri di Stato italiani.



Abituati a invocare sdegnosamente e ottenere il continuo ripiano delle proprie perdite: non certo dovute al sacro fuoco dell'arte, ma a criteri organizzativi e retributivi che manderebbero a picco chiunque. Ma invece no, il licenziamento al Costanzi è stato solo un escamotage. È rientrato del tutto, era un'arma per risedersi al tavolo e strappare un contratto che mai e poi mai, senza licenziamenti di mezzo, i sette sindacati - sette! - avrebbero altrimenti accettato.



Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Il nuovo accordo va salutato positivamente perché taglia costi ingiustificabili e privilegi vergognosi, ma al contempo bisogna anche dire che l'opera buffa romana avrà conseguenze comunque negative. In un'Italia che da mesi spacca il capello in quarantaquattro per ogni minima sottospecie di licenziamento individuale che cosa sarebbe avvenuto, se fosse stata un'azienda privata a ricorrere a un licenziamento collettivo rivelatosi dopo qualche tempo un mero strumento di pressione, per risedersi al tavolo contrattuale? Non ci vogliamo neanche pensare. Come minimo il privato sarebbe stato coperto di insulti, e trattato da avido affamatore. Invece, l'incredibile è che sia avvenuto da parte di un teatro pubblico. E ora tutti, dal sovrintendente Fuortes al sindaco Marino, sorridono come all'epilogo del Barbiere di Siviglia.



Si dirà: ma quante ne volete, siete gufi incontentabili. È vero che i nuovi accordi tagliano 3 milioni di costi e non 3,4 come sarebbe avvenuto con l'esternalizzazione di orchestra e coro. Ma è comunque sparita l'intollerabile indennità per gli spettacoli all'aperto, insieme ai compensi per le prime rappresentazioni e l'indennità di replica, quella per la rappresentazioni in forma non-scenica, la cosiddetta "tabella C" cioè la pre-tredicesima, e i premi di produzione prima distribuiti anche col bilancio che perdeva milioni su milioni. E la produttività in tre anni salirà per numero di repliche fino a quasi il 40%. E, soprattutto, c'è l'impegno a non scioperare se il Teatro da parte sua rispetta gli impegni (un altro milione e rotti di tagli altrove).



Vedremo. Già ieri due sigle sindacali che hanno aderito a denti stretti all'accordo hanno iniziato a protestare: servono nuovi assunti per rispettare davvero gli obiettivi di produttività, dicono, e il cda ha forzato la mano, aggiungono. Soprattutto, i sindacati si riservano di chiedere indietro quasi i due terzi delle indennità oggi tagliate, non appena il deficit sarà sanato: che è cosa ben diversa da un accordo stabile di compartecipazione responsabile per innalzare la produttività, significa solo esser pronti a far rientrare dalla finestra quel che oggi esce dalla porta. Nella vicenda dell'Opera di Roma, la retromarcia finale è inoltre una bastonatura per quei sindacati più aperti al senso di responsablità, che avevano accettato l'accordo dell'8 luglio scorso e avevano vinto il referendum tra i lavoratori, esponendosi ai soliti attacchi di tradimento e svendita da parte delle due sigle più antagonisticamente arroccate ai privilegi. Quei sindacati si erano esposti, ma poi ha vinto il no e gli scioperi dei minoritari intransigenti, i quali ai dipendenti diranno che la prossima volta tanto vale esser durissimi nel no sin dall'inizio, visto che l'esito finale avviene su numeri ben peggiori di quelli promessi da Fuortes a luglio e votati a maggioranza.

Ma c'è qualcosa di ancor più serio, visto che qui nessuno predica licenziamenti facili. Il punto è che si è rinunciato a un modello nuovo e positivo, che aveva del rivoluzionario. L'esternalizzazione di orchestra e coro sul modello dei Berliner Philamoniker, della Dresden Staatkapelle e dei Wiener Philarmoniker aveva il pregio strutturale di rappresentare non solo una rottura drastica di continuità con le richieste di ripiano delle perdite da parte del contribuente. Soprattutto, sarebbe stato un vero e proprio modello alternativo per le 14 fondazioni lirico-sinfoniche italiane, e per gli otto enti che ricadono nella cosiddetta legge-Bray che impegna al risanamento. Ogni tre anni avrebbe anche aperto la porta al rinnovo degli organici artistici, con l'innesto di nuovi talenti e giovani musicisti, come nelle orchestre pubbliche italiane oggi non succede.



Bene dunque i tagli ai costi. Ma peccato per la mancata rivoluzione.