Muti, l’addio di un maestro
nell’Italia dei sindacati

Muti, l’addio di un maestro nell’Italia dei sindacati
di Mario Ajello
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Lunedì 22 Settembre 2014, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 00:40
Un grande italiano costretto con dolore a dire di no a una grande istituzione italiana.

Nel cortese ma fermo rifiuto da parte di Riccardo Muti a dirigere la Aida e le Nozze di Figaro, al Teatro dell’Opera di Roma, c’è il travaglio personale del maestro - l’essere costretto a rinunciare al proprio amor di patria perché le condizioni non lo consentono - e insieme c’è il riassunto clamoroso di molti dei mali che affiggono il sistema nazionale e che impediscono alle nostre eccellenze di poter esprimere pienamente il proprio genio. Muti si auto-impedisce di lavorare al Teatro dell’Opera perché il pansindacalismo, il rivendicazionismo senza se e senza ma, il professionismo della protesta che non si ferma neppure davanti al rischio di rovinare la nostra immagine nel mondo, anzi gode nello sbrecciarla per il piacere dell’horror vacui, hanno reso quel luogo infrequentabile per chi voglia dargli lustro e desideri liberamente di riempirlo con quell’arte che il posto meriterebbe insieme alla città che lo ospita.

Si tratta di una storia triste dal punto di vista civile, che denuncia il disarmo della nostra cultura, vittima dell’impossibilità di avere istituzioni alla propria altezza. Un patriota come Muti abituato a suonare con gusto l’Inno di Mameli, un artista portabandiera del genio nazionale, un nostro simbolo e brand riconosciuto ovunque deve arrendersi di fronte alla palude corporativa e paralizzante in cui è stato costretto a sprofondare un teatro pieno di storia e deve rinunciare a esibirsi nella capitale d’Italia. Nel rifiuto di Muti c’è la sofferenza dell’artista che, per salvare la dignità del proprio talento, fa un passo indietro e insieme lancia una denuncia: non posso fare eccellenza, e allora mi arrendo; la mortificazione del sistema musicale è tale che non mi sento di esserne il testimonial e anzi, se cedessi ai miei principi, mi sentirei complice di qualcosa che profondamente disapprovo.

La drammaticità di questo gesto di sottrazione rispetto alla gestione culturale nostrana, preda di una demagogia che Muti ha deciso finalmente di schiaffeggiare, è aggravata dal fatto che il ministro della Cultura, Franceschini, capisce le motivazioni del maestro e dice che ha ragione. Il paradosso che rende ancora più amara questa vicenda sta invece nel fatto che il rifiuto di Muti avviene proprio in una fase nella quale, con grandi sforzi, il Teatro dell’Opera come altri enti lirici sta cercando la via del proprio risanamento e di una razionalizzazione necessaria. Ma contestata perfino ricorrendo a spropositi da teatro dell’assurdo. Con i lavoratori che adesso vogliono utilizzare Muti per scioperare contro la ”governance” dell’Opera, accusandola di non aver saputo trattenere il grande direttore d’orchestra.

La morale della storia è che c’è all’opera (con la minuscola) e all’Opera (con la maiuscola) un’Italia che agisce nella medesima direzione distruttiva. L’Italia che litiga sull’articolo 18, cioè sull’abolizione di vecchie regole nel lavoro che impediscono lo sviluppo e rendono poco attrattivo e poco creativo il nostro Paese, è la stessa Italia che spinge un grande maestro a non lavorare con istituzioni pubbliche che sono il concentrato della «prova d’orchestra» di Federico Fellini: cioè l’eterno caos. Così il caso Muti può essere considerato, in maniera macroscopica, come una sorta di ennesimo caso di fuga di un cervello dal sistema Italia.