"Ritorno alla vita": con Wim Wenders l'emozione viaggia in 3D

"Ritorno alla vita": con Wim Wenders l'emozione viaggia in 3D
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 1 Ottobre 2015, 18:28 - Ultimo aggiornamento: 18:31
Quattro scene per una vita. Scena uno: di ritorno da un lungo periodo di isolamento nel Grande Nord in cerca di ispirazione, l’aspirante scrittore James Franco travolge un bambino su una strada innevata.



Scena due: in visita dal vecchio padre, lo scrittore (che dopo l’incidente ha tentato il suicidio e chiuso una relazione pericolante) inizia a percepire con forza insopportabile il peso del tempo (questo il film non lo dice in modo esplicito, e come potrebbe, ma lo fa sentire. Il Tempo che scorre e ci trasforma è - ancora una volta per Wenders - il vero soggetto del film).



Scena tre: sono passati anni. Tomas ormai è uno scrittore famoso e torna in quel luogo in cui tutto è cambiato per rivedere la madre del bambino (Charlotte Gainsbourg). Non è un incontro facile anche se lei sa perfettamente che lui non ha colpe, ma tra i due si stabilirà un legame segreto, fortissimo e indefinibile. C’è anche un altro figlio che assistette all’incidente.



Scena quattro: sono trascorsi altri anni. Tomas è sempre più famoso e sicuro di sé. L’incidente, paradossalmente, lo ha migliorato, anche come autore. Ha una nuova compagna, una bambina cresciuta con lui, anche se non è sua figlia. Ma è sempre chiuso e apparentemente freddo. Forse per nascondere un tarlo che non lo lascia mai e con cui prima o poi dovrà fare i conti...



Ci sono film che catturano dalla prima scena e altri che chiedono più attenzione, ma ripagano germogliando nella memoria. Ritorno alla vita, il miglior lavoro narrativo di Wenders da molti anni in qua, in 3D come Pina, appartiene alla seconda categoria. Anche perché maneggia una materia impalpabile che oggi ossessiona molti registi (pensiamo agli ultimi Bellocchio e Moretti, o al Boyhood di Linklater, il più esplicito al riguardo). Il Tempo, appunto.



Anche Wenders infatti racconta 12 anni del suo protagonista. Ma anziché filmarlo davvero per 12 anni, come Linklater, gioca sullo stile. Distillando immagini lavoratissime che scandiscono l’evoluzione del protagonista attraverso una serie di momenti forti (forti in senso interiore: il tono ovattato e il ritmo costante non aiuteranno chi vuole montaggi serrati e colpi di scena, ma vale la pena fare uno sforzo).



Basterebbe il modo in cui è costruito l’incidente a dire la grandezza di questo imopareggiabile paesaggista che non riprende mai solo gli eventi visibili ma ciò che essi provocano dentro i personaggi. Ne esce un film personalissimo e imperfetto, qua e là cigolante ma fitto di immagini memorabili, che dal senso di colpa di uno scrittore estrae un sentimento - una musica - universale.
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