L’illusione ottica delle due sinistre

di Stefano Cappellini
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Venerdì 24 Ottobre 2014, 23:58 - Ultimo aggiornamento: 23:59
Per 40 anni, in Italia, è andato in scena lo spettacolo dello scontro tra le due sinistre. Negli anni Settanta la contrapposizione fu tra il Pci e i movimenti, negli Ottanta berlingueriani contro craxiani, nei Novanta post-comunisti versus neo-comunisti, negli anni Zero la contesa è stata tra riformisti e cosiddetti radicali.



Ma sbaglia lettura, e di grosso, chi pensa che la coincidenza tra la nuova edizione della Leopolda renziana e la piazza dei sindacati contro Jobs Act e manovra sia il simbolico avvio di una nuova edizione delle due sinistre l’una contro l’altra armate, con renziani e anti-renziani al posto dei personaggi di un tempo.



La principale differenza con il passato è che tutte le sinistre che si sono contese il controllo del campo progressista si scontravano per l’egemonia all’interno di una minoranza del corpo elettorale. Hanno perso tutte, infatti. Ciascuna di quelle vecchie contese ha prodotto soltanto effimeri vincitori di stagione: il Pci è sopravvissuto alla sfida degli extraparlamentari per poi confinarsi nel ghetto della residualità, il Psi ha espresso il presidente del Consiglio ma non ha mai superato la soglia del 15 per cento, l’Ulivo ha governato senza numeri (nel 1996 vinse grazie alla Lega fuori dal centrodestra, nel 2006 per poche migliaia di voti) e soprattutto senza risolvere le contraddizioni interne che, due volte su due, ne hanno decretato il fallimento. Oggi è cambiato tutto.



Il Pd è al governo, con una maggioranza eterogenea, vero, ma di fatto con una legittimazione e un consenso tutti propri, mai così larghi e trasversali. Renzi non ha solo rottamato la vecchia nomenclatura, ha ridisegnato i confini del campo di gioco e, al suo interno, tutte le logiche su cui si costruiva la dialettica delle due sinistre sono fuori corso.



Quella che ieri, nelle sue varie forme, era una disfida identitaria (io solo sono il vero rivoluzionario, io il vero riformista, io il custode dei nostri valori) hanno definitivamente lasciato il posto alla sfida – poco accademica e molto concreta – su un progetto di governo per il Paese. Se qualcuno pensa di incalzare Renzi sfidandolo sull’album di famiglia, a chi è fedele alla linea e chi è il deviazionista o, magari, l’infiltrato, parte sconfitto in partenza. E non perché sinistra o destra siano concetti superati, tesi che ha potuto trovare dignità politologica solo nel nostro strampalato dibattito pubblico. Il punto è che la platea chiamata a giudicare Renzi non lo farà sul criterio della maggiore o minore fedeltà alla tradizione. Starà poi a Renzi dimostrare che, pur scombinando formule e rompendo automatismi, i risultati della sua azione di governo sono compatibili con gli obiettivi irrinunciabili della sinistra, il cui elettorato resta pilastro non sostituibile della sua premiership.



Questo, ovviamente, non significa che non esista spazio e legittimità per un dissenso da sinistra rispetto al nuovo corso democrat, ma solo che Renzi, piaccia o no (dovrebbe piacere ai sostenitori del partito solido), ha spostato la partita decisiva tutta dentro il Pd. La seconda sinistra, stavolta, è una finzione di chi pensa di poter rispolverare gli scaduti equilibrismi di lotta e di governo, un po’ fuori e un po’ dentro, o la stagione in cui i ministri dell’Ulivo stavano la mattina in piazza contro il governo e il pomeriggio al tavolo di Palazzo Chigi.



L’impressione è che una parte della minoranza Pd speri di mascherare la sconfitta politica nascondendosi dietro l’attivismo del sindacato e la sua ancora alta capacità di mobilitazione, chiedendo al sindacato stesso di surrogare l’assenza di una reale alternativa al renzismo. Siamo oltre il collateralismo vecchio stampo, siamo a una delega della rappresentanza a chi di mestiere dovrebbe fare altro, una delega non molto diversa da quella che ha spinto ciò che resta della fu sinistra radicale ad affidarsi a testimonial, l’altroieri Ingroia, ieri Tsipras, domani magari Landini.



Si è detto che la situazione attuale rilancia l’equivoco del 2001, quando qualcuno pensò che i milioni di manifestanti scesi in piazza sempre contro la riforma dell’articolo 18 potessero essere spesi sul terreno della lotta politica pura. Ma stavolta è anche peggio, perché chi allora puntava su Cofferati leader pensava di competere per la guida della coalizione di centrosinistra, mentre adesso l’obiettivo massimo è concorrere alla fondazione di un partitino di derivazione sindacale destinato a uno strutturale minoritarismo. Allora fu un fallimento, stavolta sarebbe pure un inganno: recitare la vecchia rassicurante battaglia delle due sinistre e simulare che da essa dipenda il corso delle cose italiane.