Perché Salvini non basta a rifondare il centrodestra

di Alessandro Campi
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Venerdì 28 Novembre 2014, 00:46
Berlusconi è convinto che al momento del voto, tra sei mesi o due anni, si possa ricostruire una coalizione che vada dalla Lega a Forza Italia, passando per i centristi.



L’impressione invece è che per creare, a partire dalla frammentazione odierna del centrodestra, un’alternativa politicamente credibile alla sinistra liberal-riformista che Renzi, non senza fatica, sta cercando di costruire in Italia, ci vorranno probabilmente anni.



Serviranno in particolare altri uomini, altre idee, un nuovo modello partitico-organizzativo, un nuovo leader. Nel frattempo non resta che assistere allo psicodramma che sta andando in scena all’interno dello schieramento moderato. Un copione fatto di litigi (anche pubblici) e riconciliazioni momentanee, di appelli all'unità che però nascondono divisioni drammatiche e per molti versi non più componibili, di atti di insubordinazione e immediati richiami all’ordine.



Un dramma politico-umano che sembra nascondere soprattutto un profondo deficit progettuale, un’assoluta mancanza di idee e di strategie. Per non dire dell’incapacità ad avviare, come è accaduto non senza lacerazioni a sinistra, un autentico rinnovamento dei gruppi dirigenti, se con le solite modalità a metà tra il concorso di bellezza e la cooptazione tra i membri di un club. Dire che la ragione principale di tutto ciò è l’ostinazione di Berlusconi a vent’anni dalla sua entrata nell’agone politico, è a questo punto persino noioso.



Lui del centrodestra è stato l'inventore e il federatore, colui che l'ha portato alla vittoria tenendone unite le diverse anime in virtù di un carisma politico e di una forza mediatico-finanziaria che ha nel frattempo perduto. Sempre lui, nella sua pretesa di eterna giovinezza politica, oggi impedisce a questo mondo di rifondarsi per tornare ad essere competitivo con gli avversari e attraente agli occhi di chi dovrebbe votarlo. Conviene forse guardare alle altre cause di questa crisi. La principale delle quali è che il centrodestra odierno è culturalmente afasico. Non ha semplicemente niente da dire rispetto ai suoi avversari, ai quali – a Renzi in particolare – ha consegnato docilmente tutti i suoi storici cavalli di battaglia.



Da un certo punto di vista è persino un successo storico, per la destra liberal-popolare, che la sinistra dei rottamatori le abbia saccheggiato temi e parole d’ordine: in materia di mercato del lavoro, di lotta alla burocrazia, di elogio del merito. Nella pratica tuttavia essa adesso si ritrova senza temi propagandistici da agitare. Se vuole farsi riconoscere deve urlare contro l'Europa, fare la voce grossa in materia di sicurezza o rischiare di scivolare nella predicazione xenofoba. A questo scenario di crisi sembrerebbe in effetti sfuggire Matteo Salvini, con la sua Lega trasformatasi da padana in nazionale. Il problema è che il successo della Lega presenta più di un lato problematico, che lo rende potenzialmente precario. È frutto, per cominciare, di una piattaforma ideologica che è quella tipica di una certa destra radical-populista diffusasi anche nel resto d'Europa complice il perdurare della crisi economica.



Prendere voti agitando lo spettro dell'immigrazione selvaggia o predicando l'uscita dall'euro è facile, soprattutto in tempi di paure collettive crescenti, ma allontana fatalmente dall'area delle responsabilità di governo. Non solo, ma cavalcare la protesta, come dimostra la parabola discendente di Grillo, espone a pericolose oscillazioni elettorali: gli arrabbiati nelle urne non rispettano alcuna fedeltà politica, si fanno soltanto guidare dall'istinto e dal risentimento. Oggi votano un imprenditore che promette miracoli, domani un comico che inveisce contro il palazzo, dopodomani si mettono nelle mani del tribuno in maglietta. Un giro di giostra, in attesa di chi urla più forte.



C'è poi da capire quanta sia seria la nazionalizzazione della Lega, che molti osservatori danno come una mutazione ormai avvenuta. Dopo venticinque anni nei quali si è oscillato tra la secessione e il mito del Grande Nord, è difficile accreditarsi come forza unitaria, in grado di parlare ai cittadini da Torino a Enna, se non altro perché agiscono vecchi automatismi mentali: basta ad esempio che si parli di Olimpiadi nella Capitale perché si risveglino antiche pulsioni antiromane e antinazionali.



Esiste insomma un dna ideologico-antropologico che impedisce alla Lega di crescere fuori dai confini padani. C'è infine un altro aspetto. La Lega oggi trionfante ha sicuramente saccheggiato l'elettorato che fu di Alleanza nazionale, il più sensibile a proposte di tipo identitario. Ma quello forzista-moderato probabilmente l'ha solo sfiorato: quest'ultimo, deluso da Berlusconi e poco convinto dai “diversamente berlusconiani”, si è probabilmente rifugiato in massa nell'astensionismo, in attesa di tempi migliori. Che forse torneranno, ma chissà quando se questo è il quadro.