La lista/ Un calderone giustizialista senza regole

di Stefano Cappellini
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Venerdì 29 Maggio 2015, 22:09 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 12:28
La vicenda dei cosiddetti impresentabili si è chiusa con un colpo di scena non proprio imprevedibile: c’è anche Vincenzo De Luca nell’elenco che la commissione parlamentare Antimafia ha diffuso ieri, a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale per le regionali. La presenza del candidato Pd alla presidenza della Campania ha amplificato l’eco dell’iniziativa dell’Antimafia e ne ha definitivamente svelato la sua fragilità politica e giuridica.

Paradossalmente, se l’Antimafia si fosse limitata a segnalare il solo nome di De Luca l’atto non sarebbe stato meno opinabile ma avrebbe almeno sottolineato il problema, rimosso dall’interessato e sottovalutato dal suo partito, di un aspirante governatore che sulla base della legge in vigore rischia di non esercitare la funzione in caso di vittoria. L’aver invece gettato in un calderone nomi e storie diversissime ha completato un pasticcio di cui erano chiari da giorni gli ingredienti: si additano all’opinione pubblica candidati consiglieri con carichi pendenti di vario genere - molto vario - ai quali la legge non impedisce la candidatura e li si accomuna con un candidato che un impedimento di legge ce l’ha eccome.



Con quale criterio si è allestito questo club? La fondazione di una categoria ad hoc, gli impresentabili, che giuridicamente è un assurdo e politicamente un obbrobrio: o si è candidabili per legge o non lo si è, o si è colpevoli per sentenza definitiva o si è innocenti, su tutte le altre situazioni l’unico giudice titolato a esprimersi è il popolo sovrano, e l’unico limite al mandato popolare è il rispetto della legge, appunto ciò che al momento impedirebbe a De Luca di entrare in carica qualora vincesse.



Il diritto-dovere dell’opinione pubblica a essere informata sulle credenziali dei candidati non può essere soddisfatto dall’imposizione politica di una lettera scarlatta, tramite una lista che istituzionalizza la condizione di mezzo del sospettato. E chi è poi il sospettato? Chiunque sia indagato? Nemmeno. La candidata alla presidenza della Liguria, Raffaella Paita, è a sua volta sotto inchiesta eppure non figura nell’elenco. Si dirà: è accusata di altro genere di reati. Il concorso in disastro colposo è meno grave dell’abuso d’ufficio? Si dirà ancora: è un reato che non c’entra con la mafia. Ma neppure la concussione o la corruzione - per quanto ipotesi di reato gravissime - sono prerogative di malaffare mafioso. Insomma, ai già traballanti criteri di composizione della lista si aggiunge l’ulteriore discriminazione tra indagati ”buoni” e indagati ”cattivi”. Decide la commissione di Rosi Bindi chi finisce tra i primi e chi tra i secondi. La via della presunta trasparenza conduce dritta nel regno dell’arbitrio più totale.



Un arbitrio consumato sullo sfondo di un regolamento di conti interno al Pd, del quale il meno che si possa dire è che due torti non fanno una ragione: se è lecito sospettare che il presidente Bindi abbia voluto consumare una vendetta anti-renziana, lo è altrettanto rimarcare che Renzi, segretario del partito oltre che presidente del Consiglio, avrebbe dovuto risolvere il caso De Luca - vero motore della vicenda - ben prima che arrivasse a questo punto. Il principale partito di maggioranza esce rappresentato da questa vicenda come una forza agitata da minoranze fuori controllo e periferie autogestite.



Quali effetti produrrà sugli elettori questo can can è difficile dire. Probabile che non cambi gli orientamenti di chi ha già maturato una scelta, sicuro che possa spingere un altro pattuglione di elettori a tenersi lontano dalle urne.