Il Paese in ritardo/ L’immigrazione e i conti sbagliati

di Oscar Giannino
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Lunedì 20 Aprile 2015, 22:30 - Ultimo aggiornamento: 21 Aprile, 00:17
Che cosa induce da oltre vent’anni l’Italia a vivere i flussi di immigrazione in perenne affanno e inseguendo le tragedie di migliaia di annegati, rispetto agli altri Paesi avanzati? No, la risposta non è geografica, ovviamente per il fatto che al centro del Mediterraneo a poche miglia di mare dalla Libia ci siamo noi, e non altri. La risposta è politico-culturale. Abbiamo vissuto l’esplosione del fenomeno migratorio come una patologia.



Una patologia di volta in volta da arginare come fosse passeggera questione di ordine pubblico, dalla legge Martelli alla Turco-Napolitano, alla Bossi-Fini. Non abbiamo capito che dovevamo far tesoro dalle esperienze altrui, cumulate prima di noi innanzi a fenomeni analoghi per decenni, e in alcuni casi per secoli, nel caso di Paesi che hanno avuto Imperi come il Regno Unito o la Francia. Il ritardo resta, purtroppo, anche oggi. Ed è un ritardo a tre dimensioni. La prima è purtroppo quella consegnataci dagli ultimi sviluppi. Per evitare che primavera ed estate del 2015 siano una strage mediterranea continua occorre un complesso dispositivo politico-militare. Da costruire sommando Onu, Ue e una coalizione di Stati africani e musulmani. Spostare la vigilanza sul traffico di carne umana «per impedire che gli scafi partono dalla Libia», come ha detto Renzi. E che in realtà equivale a quel che ha detto Salvini invocando il blocco navale. Significa per l’Italia mostrare di avere un coalition power transmediterraneo e transatlantico. Ciò che la politica estera e militare italiana non ha nelle sue corde, abituata com’è a oscillare tra decisioni prese dagli altri - vedi l'intervento in Libia nel 2011, voluto dai franco-britannici - e querimonie verso la Ue che ci trascura, vedi l’evoluzione da Mare Nostrum all’attuale inadeguata missione Triton.







Occcorre un vero "gabinetto di guerra" perché l'italia possa, in un paio di mesi, ottenere la cornice internazionale senza la quale «impedire agli scafisti di partire dalle coste libiche della Sirte» sarà un miraggio. La somma complessa di mezzi aero-navali, droni e satelliti necessari a controllare le coste libiche e a organizzare aree umanitarie di raccolta in Libia è ipotizzabile solo se l’Italia convince molti Paesi che in gioco c’è la sicurezza comune. Non è cosa agevole se si immagina uno strumento militare italiano che a malapena raccoglie lo 0,9% del Pil.



Il secondo e il terzo aspetto riguardano invece l'immigrazione ordinaria: la sua pianificazione e la sua gestione. Mentre la dimensione politico-militare del guaio libico è recente, su questi due aspetti il ritardo italiano è patologico. Sono passati vent'anni da quando avevamo un numero di immigrati di poco superiore a 500 mila unità, mentre oggi sono 5 milioni e mezzo, un milione e 300 mila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Avremmo dovuto capire, azzerando ogni polemica politica, che l’attuale andamento demografico non rende sostenibile il futuro del nostro Paese: nel 2014 siamo giunti al minor numero di nati dall’Unità d’Italia, solo 508 mila, i morti sono stati 80 mila in più, le donne italiane hanno un numero medio di figli pari a 1,3 mentre il tasso di equilibrio demografico dovrebbe essere di 2,1, e tutto questo a lungo andare abbasserà sempre più il numero di persone al lavoro rispetto ai pensionati. Vent'anni sono abbastanza per comprendere che o rimediamo come abbiamo fatto nel quindicennio alle nostre spalle, con in media 300 mila immigrati nuovi ogni anno (scesi a 150 mila nel 2014, per la crisi), oppure, se non vogliamo immigrati, dobbiamo cambiare radicalmente la politica fiscale e il welfare per sostenere le famiglie e la fecondità delle residenti attuali.



Questo arido ma essenziale «conto economico delle convenienze dell’immigrazione» è stato fatto nel tempo da altri Paesi avanzati. Negli anni Cinquanta la Germania aveva bisogno di manodopera e spalancò le porte ai Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani e turchi, poi africani e asiatici. Per poi, nella crisi occupazionale degli anni Duemila, stringere il freno e passare alla pianificazione delle quote nazionali. La stessa cosa è avvenuta nel tempo in Australia e negli Usa, e in tanti Paesi Ocse che senza tanti patemi "scelgono" le qualifiche, basse e alte o altissime, a cui tenere discrezionalmente e diversamente aperte le quote di regolarizzazione degli immigrati. È questo l'esemipio a cui dobbiamo guardare.



Il terzo aspetto riguarda le politiche sociali e d’integrazione. Prima ancora che ridiscutere se la cittadinanza italiana si dia ancora per ius sanguinis invece che aprendo allo ius soli, l’Italia dovrebbe uscire dal disastroso modello adottato sin qui. Cioè quello che, dietro la prima linea dei Cie e delle sistemazioni d’urgenza, abbandona però integralmente agli Enti Locali la competenza delle politiche d’integrazione. È da questa scelta scaricabarile, che deriva il concentrarsi di guai quando in aree delimitate di territorio l’immigrazione, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana, diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in un piccolo centro. Molto spesso in aree in cui il reddito degli italiani è a propria volta molto basso e alto è il disagio sociale, e dove ogni intervento pro-immigrati a quel punto alimenta come benzina intolleranze e populismi di ogni tipo. Come avvenne l'anno scorso a Tor Sapienza a Roma.



Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali. In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere competenze e risorse per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei. Ma le nascenti Città Metropolitane sono attualmente senza risorse.



È giusto credere che l'Italia debba modificare gli accordi di Dublino sul dovere di asilo del primo Paese che registra gli immigrati. Ma ciò non toglie che il malessere italiano che si legge nei sondaggi sull’immigrazione nasce dal credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie. Non è una soluzione. È la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.