Classi dirigenti, quel vuoto da colmare in politica

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 12 Ottobre 2015, 22:09 - Ultimo aggiornamento: 13 Ottobre, 00:09
Più di quarant’anni fa - era il 1974, l’anno del referendum sul divorzio - l’allora cardinale vicario Ugo Poletti, convocò uno storico convegno sui “mali di Roma”. Molti interpretarono quell’iniziativa come una presa di distanza della Chiesa dalla classe politica romana, in particolare da quella democristiana che per decenni aveva di fatto gestito la capitale in stretto connubio con la Curia e con il clero. L’attuale successore di Poletti, il cardinale Agostino Vallini, si è spinto molto più in là quando, in una pubblica lettera indirizzata ai romani nell’imminenza del Giubileo, ha seccamente invitato la città a darsi una salutare “scossa”, auspicando nientemeno che la formazione di una “nuova classe dirigente nella politica”.

Probabilmente non parlava solo di Roma, della controversa uscita di scena di Ignazio Marino e delle prove non brillanti degli ultimi amministratori della capitale. Del resto, se nelle tre maggiori città d’Italia - Roma, Milano e Napoli - il maggior partito italiano fatica terribilmente a trovare candidati credibili nelle sue file e anche fuori di esse, è segno che il problema è generale.



Qualcosa evidentemente si è inceppato nei meccanismi deputati a raccogliere il consenso degli elettori e a selezionare i gruppi dirigenti nazionali e locali. E a fare le spese della sfiducia mista all’ostilità o al disinteresse con cui il grosso dei cittadini guarda alla politica tradizionalmente intesa sono in prima battuta i partiti. Non stiamo certo parlando di un fenomeno nuovo. I partiti in Italia non hanno mai goduto di soverchia popolarità. Ma, per un lungo tratto di storia della prima Repubblica, sono stati visti come il canale privilegiato attraverso cui i cittadini avevano la possibilità di esprimere le loro istanze e di influire sulla gestione della cosa pubblica, e al tempo stesso come l’agente di un’azione pedagogica e di controllo, capace di organizzare e di indirizzare lo spontaneismo dei movimenti sociali.



Questa funzione, com’è noto, andò via via esaurendosi, a partire già dai tardi anni Settanta; e il sistema dei partiti si logorò, per colpa soprattutto dell’assenza di ricambio al vertice, della farraginosità della macchina amministrativa, infine del circolo vizioso che vedeva il ceto politico contrastare l’impopolarità allargando le cattive pratiche finanziarie e attirandosi così nuovo discredito. Poi, nel ’92-93, venne il terremoto di Tangentopoli e delle inchieste giudiziarie. E molti credettero che fosse sufficiente rimuovere il tappo di una politica irrimediabilmente guasta per far emergere le energie di una società civile per sua natura virtuosa e incorrotta.



Il sistema ne uscì a pezzi, e con esso i partiti che ne erano espressione. Venne il tempo delle leadership personali, delle primarie, dei candidati sindaci o governatori - intellettuali, professionisti, manager, magistrati, funzionari pubblici - selezionati soprattutto in ragione della loro estraneità alla politica (il caso dell’ex sindaco Marino è solo il più clamoroso). Il tutto, però, senza che alla crisi delle vecchie appartenenze ideologiche e delle collaudate modalità organizzative tipiche della Repubblica dei partiti si sostituissero, se non in piccola parte, nuove realtà associative e nuove forme di partecipazione dal basso, capaci di popolare lo spazio, sempre più desertificato, che separa il ceto di governo dai comuni cittadini.



A colmare questo vuoto nessuno dei soggetti interessati ha sinora provveduto seriamente. Non i partiti superstiti, toccati ancora una volta dagli scandali legati all’uso improprio del finanziamento pubblico e troppo concentrati sulle loro lotte interne e sulle loro mini-scissioni. Non la mitica società civile, realtà troppo vaga perché si possa fondare su di essa un progetto che vada al di là di un’indefinita ansia moralizzatrice. Non il movimento sindacale, in evidente crisi di rappresentatività e di credibilità. Nemmeno il mondo cattolico, esauritasi da tempo la stagione del collateralismo, appare in grado di andare al di là degli appelli: di svolgere cioè quell’attività di formazione e di inquadramento pre-politico che in passato gli aveva permesso di influenzare le scelte di settori consistenti della società italiana.



Quanto al movimento Cinque stelle, il problema se lo è posto, eccome. Anzi ne ha fatto il tratto distintivo della sua identità (e qui sta il motivo principale del suo successo). Ma, anziché risolverlo, lo ha sostanzialmente eluso, riproponendo, in termini semplicistici, il mito del comune cittadino (dell’uomo qualunque?) che si autocandida al governo della cosa pubblica senza ammettere mediazione alcuna e, quel che è peggio, senza proporre adeguati meccanismi di rappresentanza. La verità è che la riforma della politica possono farla solo i partiti, comunque li si voglia chiamare. Purché sappiano inventare, o riscoprire, canali efficienti di reclutamento e di presenza nella società. Purché non ricadano nell’autoreferenzialità che ha finito col distoglierli dalla vera funzione cui sono chiamati dalla Costituzione: “Concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.