La battaglia delle culle per spingere la crescita

di Antonio Golini
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Martedì 21 Ottobre 2014, 00:24 - Ultimo aggiornamento: 01:05
Il provvedimento, quello degli 80 euro al mese per i primi tre anni di vita dei figli di coppie con un reddito forse fino a 90 mila euro è rivolto a contrastare la profonda recessione demografica, antica e persistente nel nostro Paese.



Un provvedimento di un bonus una tantum alla nascita di un figlio fu preso già molti anni fa, ma gli effetti furono assai ridotti e di breve periodo, sicché il bonus terminò rapidamente insieme con le risorse ad esso destinate.



Nel 1999 in Italia si ebbe una fecondità di 1,19 figli per donna, il valore che risulta essere il più basso mai registrato nella storia dell’umanità in una popolazione di grande dimensione. Nel 2013 il valore è stato un po’ più alto per effetto del contributo positivo dato dalle donne straniere, il che ha consentito di avere nel nostro Paese 514 mila nascite, mentre in Francia - un Paese di dimensioni demografiche simili a quelle italiane, certamente moderno, con una condizione della donna di certo non inferiore a quella italiana e anzi con un lavoro femminile più intenso e diffuso - se ne sono contate 810 mila, quasi 300 mila in più rispetto all’Italia, cioè una differenza del 58 per cento.

Il fatto è che in Francia, per una antica e radicata tradizione, una nascita è vista non soltanto come bene individuale, della donna e della coppia, ma anche come bene collettivo che contribuisce, con la sua sola presenza, al benessere della società.



E vi contribuisce non soltanto attraverso una spinta economica sui beni di immediato consumo e su alcuni di quelli durevoli, ma anche attraverso una spinta psicologica nei confronti della vita, giacché pensare ad avere e allevare un figlio in più significa pensare e guardare in avanti per almeno venti-trenta anni, e quindi alla necessità di affrontare il futuro.



Un figlio in più modifica profondamente anche la relazione fra le generazioni, straordinariamente mutate nel nostro Paese dalla assai diffusa presenza di figli unici che hanno sopra di sé due genitori (e spesso un po’ di più per la presenza di nuovi genitori acquisiti per effetto della rottura e ricomposizione di rapporti coniugali), tre-quattro nonni e finanche uno-due bisnonni. Un figlio in più modifica non poco queste relazioni, aumentando nelle generazioni le relazioni orizzontali per la maggiore presenza di fratelli e sorelle, oltre che di cugini. Una ben diversa concezione della vita e del modo di porsi di fronte ad essa e alle sue responsabilità.



C’è poi l’aspetto contingente, che deriva dagli attuali ridotti o ridottissimi tassi di occupazione della popolazione giovanile e dai loro ridotti o ridottissimi redditi che scoraggiano o impediscono di pensare a un figlio e privano così le coppie, e in particolare le donne, il cui orologio riproduttivo è assai più scandito di quello maschile, di una loro marcatissima aspirazione che è quella di avere un figlio. Con l’aiuto economico si ha l’opportunità di ritmare meglio le “ore” della vita.



Va infine considerato che il nostro sistema di welfare è tutto (o quasi) a ripartizione, nel senso che pensioni, sanità e scuola sono esclusivamente basate sui contributi di chi lavora. Se quindi non assicuriamo via via nel tempo un adeguato numero di persone che lavorano, rischiamo che tracolli in tutto o in parte il sistema di welfare del nostro Paese.



È anche in questo quadro – ma certamente non soltanto in questo quadro – che va vista assai positivamente pure la proposta di considerare italiani coloro che nascono in Italia e che in Italia hanno completato un ciclo di studi. Un provvedimento giusto, auspicato e atteso ormai da decenni.