Migranti, i drammatici viaggi della speranza raccontati con i loro selfie

Una delle immagini pubblicate da Maziad Aloush su Instagram
di Giulia Aubry
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Giovedì 3 Settembre 2015, 18:32 - Ultimo aggiornamento: 19:29
Un gruppo di ragazzi scatta un selfie su una spiaggia di Kos in Grecia. Altri, zaino in spalla, si immortalano mentre camminano nella campagna sul confine tra Macedonia e Serbia.



Una donna si pettina prima di scattarsi una foto sullo sfondo del mare. Un altro fa il segno del cuore con le mani, alla maniera dei calciatori, su un pontile in legno al tramonto. Un ragazzo che non avrà più di 18 anni sorride nell’autoscatto di fronte a una tenda igloo in quello che sembra un campeggio.



Non sono le foto delle vacanze in Grecia o nei Balcani di un gruppo di giovani turisti che vogliono condividere i loro momenti più felici con i loro amici rimasti a casa. Sono le immagini di giovani e giovanissimi siriani che sfuggono dalla guerra, a migliaia ogni giorno, e che compaiono numerose su instagram, facebook e twitter. Volti che raccontano la sofferenza, i pericoli, ma anche le gioie e le aspettative di quei “viaggi della speranza” che fanno discutere nell’Unione europea e nel mondo intero.



I giovani che, armati di bastone da selfie, sorridono al piccolo schermo del loro smartphone sulla spiaggia di Kos sono sfuggiti alla morte, che ha invece segnato inesorabilmente il destino del piccolo Aylan (il bambino della foto diventata il simbolo del dramma dei profughi siriani) e della sua famiglia. La loro non è una foto per i giornali (anche se molti fotoreporter hanno immortalato il gesto), è una foto per loro stessi, per i loro familiari. Per esorcizzare le loro paure. Per dire al mondo che quelle acque che separano guerra, massacri di civili e campi profughi turchi, giordani e libanesi ormai allo stremo delle forze, dalle coste dell’Unione europea non li hanno inghiottiti per sempre.



Li aspetta un altro viaggio. Quello che raccontano su instagram Maziad Aloush e Zaher Arour. Il primo, un ex insegnante siriano, ha guidato venti persone lungo la cosiddetta West Balkan route, la strada che dalla Turchia, passando per cinque nazioni, conduce in Germania. Di lì non passano solo i profughi siriani, ma tanti di coloro – iracheni, yemeniti, ma anche nordafricani – che si confrontano con guerre senza più trincee e confini, senza più aree di salvaguardia per gli “uomini comuni”. E lo smartphone è il loro compagno più fedele durante questo viaggio che li porta sui mari verso la Grecia e, poi, in Macedonia, Serbia e Austria. Permette di comunicare non solo tra di loro, ma anche con le agenzie internazionali e, spesso, con i parenti rimasti a casa nei campi profughi di qualche paese del Medio Oriente.



Secondo i dati riportati recentemente dal New York Times l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati avrebbe distribuito 33.000 SIM card ai rifugiati siriani in Giordania e 85.704 caricabatterie solari.

Ma quei telefoni cellulari sono anche il loro diario di viaggio. Per chi verrà dopo di loro, per chi è rimasto a casa, per chi è sotto le bombe in Siria o ha fame nei campi profughi giordani e libanesi dove da giorni non si trova più cibo sufficiente. Intervistato dal sito di informazione Vocativ.com, Maziad ha raccontato le difficoltà e le paure di un viaggio così difficile a cui tanti – troppi - non sopravvivono.



Eppure i selfie che ha scelto di pubblicare mostrano sempre ragazzi sorridenti. “L’ho fatto per non far preoccupare troppo i miei genitori e per far sì che mi seguissero passo dopo passo nel mio lungo viaggio in Europa” ha dichiarato ai giornalisti che lo hanno contattato su Whatsapp. “La foto che amo di più è quella con i miei due fratelli in Macedonia” ha continuato. La foto mostra tre ragazzi abbracciati che potrebbero essere reduci da una scalata sulle Dolomiti. Ragazzi come tanti di quelli che si incontrano ogni giorno che, però, conoscono sin troppo bene la guerra e non vogliono che siano altri a raccontare di loro, vogliono farlo in prima persona.

Per questo sui canali instagram di Maziad e Zaher sono comparse ieri le terribili foto del piccolo Aylan.



Quel corpo abbandonato sulla spiaggia, rigettato dalle acque tra la Turchia e Kos poteva essere il loro. E Maziad e Zaher, come tanti altri siriani, vogliono condividerle con il mondo perché è parte della loro storia, perché solo così possono davvero far sentire la loro voce, denunciare quanto accade ogni giorno al di là della facile ipocrisia e del buonismo di gran parte del mondo occidentale.



Quelle immagini di ragazzi sorridenti nel campo di raccolta di Mytilene in Grecia, dove non ci sono né docce né cibo, vogliono esorcizzare la fatica, la paura, la disperazione. E forse anche per questo Maziad, appena qualche giorno prima di partire per il suo lungo viaggio balcanico, aveva pubblicato una sua foto scattata qualche tempo fa a Palmyra. Mentre la bellissima città siriana saltava in aria e veniva per sempre distrutta dagli uomini di Isis, Maziad solcava i mari verso nuovi templi, quelli della Grecia. Perché bisogna continuare a mantenere la memoria e a sperare e perché, come lui stesso scrive nel profilo su instagram, “la vita è troppo breve per passarla ad odiare qualcuno”.