Gelo dopo le accuse: Netanyahu attacca Obama sull’Iran

di Mario del Pero
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Martedì 3 Marzo 2015, 22:44 - Ultimo aggiornamento: 4 Marzo, 00:18
Quello di Benjamin Netanyahu e del capogruppo repubblicano alla Camera, John Boehner, che lo ha invitato a intervenire al Congresso, è un gesto di sfida clamoroso. Per quanto si sia cercato negli ultimi giorni di smorzare toni e tensioni, si tratta di una vicenda senza precedenti. Almeno nella storia statunitense recente. Accettando l’invito dei repubblicani, il primo ministro di Israele è entrato a pie’ pari nell’aspro scontro politico in corso negli Usa, denunciando le scelte e la strategia di Obama. E lo ha fatto nel pieno della campagna elettorale per il rinnovo del parlamento israeliano, inserendo quindi nell’equazione anche questa ulteriore variabile. Intendiamoci, che la politica estera degli Usa si muova secondo un responsabile spirito bipartisan e sia impermeabile a pressioni di soggetti esterni è una di quelle leggende che, per quanto diffuse e popolari, sono del tutto smentite dall’esperienza. Eppure a tanto non si era mai giunti, a meno di non voler scomodare i primi anni di storia degli Stati Uniti quando metà o più Congresso era sul libro paga di potenze straniere.



Ci si chiede dunque perché Netanyahu abbia azzardato così tanto e cosa ci dica questo dei rapporti tra Israele e il loro alleato e protettore, gli Stati Uniti. È chiaro come a monte abbia agito un calcolo tanto di opportunità quanto di possibilità politiche. In una campagna combattuta, come quella in corso in Israele, alzare la soglia dello scontro con un presidente come Obama, così inviso a larga parte della destra israeliana, può portare evidenti dividendi elettorali.



Che non sembrano peraltro imporre contropartite in termini d’immagine e popolarità negli Stati Uniti. Tutti i sondaggi ci rivelano infatti come il consenso di Netanyahu negli Usa rimanga alto e non sia stato comunque danneggiato dalla controversia. Un dato in parte sorprendente, questo, spiegabile con la diminuzione dell’apprezzamento dell’opinione pubblica statunitense verso la politica mediorientale di Obama e la frequente contrapposizione tra la presunta debolezza del presidente e l’acclarata fermezza del governo israeliano.



Vantaggi elettorali e praticabilità politica non sono però sufficienti a spiegare la scelta di Netanyahu di accogliere l’invito, di per sé assai strumentale, di Boehner. È evidente come vi sia oggi una marcata differenza nelle visioni strategiche e nelle politiche di sicurezza d’Israele e degli Stati Uniti. Per il primo, l’Iran rimane un avversario assoluto ed esistenziale, al quale va mantenuto uno status di paria nel sistema internazionale corrente. Obama ritiene invece che vi siano differenze e divisioni dentro il regime iraniano e che queste vadano sfruttate per favorire l’ala più moderata e dialogante.



Soprattutto, comprende l’importanza crescente dell’Iran nel complesso scacchiere mediorientale e la necessità quindi di coinvolgerlo in un’azione diplomatica multilaterale indispensabile alla stabilizzazione dell’area e al contenimento dell’Islam più radicale. Per Obama i negoziati sul nucleare sono fondamentali anche per i possibili vantaggi collaterali che ne potrebbero conseguire, su tutti la piena cooptazione di Teheran nella gestione dell’ordine regionale.



Per Netanyahu, al di là del timore - più o meno fondato, più o meno esagerato - del programma nucleare iraniano, i negoziati in corso minacciano invece di costituire la premessa sia di una piena legittimazione dell’Iran sia di una potenziale, conseguente riduzione dell’importanza della relazione speciale tra Israele e gli Stati Uniti. Anche per questo ha deciso di sfidare così apertamente Obama, trovando ovviamente una sponda nella leadership repubblicana che al Congresso sta cercando in tutti i modi di ostacolare il dialogo tra Washington e Teheran.



La ferma e irata reazione dell’amministrazione induce a ritenere che non sia stata una scommessa vincente.
Di certo si tratta di un precedente rilevante dentro un dibattito, quello congressuale e politico statunitense, sempre più polarizzato e conflittuale.