Il superpoliziotto e le calunnie dell’instancabile burattino

di Paolo Graldi
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Mercoledì 22 Ottobre 2014, 23:16 - Ultimo aggiornamento: 23 Ottobre, 00:03
Gianni De Gennaro, già sbirro d’eccellenza al fianco di Giovanni Falcone, ex capo della polizia per sette anni, confermato al vertice del Viminale da una mezza dozzina di governi, uscito indenne dai fattacci del G8 di Genova, eccellente direttore dei servizi di sicurezza (Dis), sottosegretario all’Interno con Amato, ora presidente di Finmeccanica con Renzi non è quel che è stato: è, invece, il misterioso “signor Franco”, anello di congiunzione tra mafia e istituzioni.



Un altissimo funzionario doppiogiochista, chissà forse ideatore della trattativa Cosa Nostra-Stato. Vero? Calunnie, spaventose calunnie sulfuree messe su, inventate, congegnate, diffuse da quel Massimo Ciancimino che già se la vede con i giudici di Palermo per gli stessi reati. Adesso è il giudice di Caltanissetta a rinviarlo a giudizio questo figlio scapicollato di don Vito, già sindaco di Palermo, stracondannato per i suoi rapporti, quelli sì veri, con i Corleonesi, lasciando agli eredi carte e cartacce sulle quali il suo rampollo (verso il quale nutriva poco affetto e nessuna stima: «soleva raccontare bugie, inventava situazioni, millantava amicizie», ha raccontato un teste che lo conosce bene), ha costruito un castello di incredibili “verità”.



E le ha sperse al vento come fossero coriandoli. Ha giocato al “piccolo falsario” manipolando appunti, lettere, dattiloscritti nei quali, d’improvviso e non si sa ancora come e perché, ha infilato il nome di De Gennaro. Dapprima lo ha inserito in una storia di passaporti: lui, la moglie, il figlioletto appena nato, ne avevano bisogno e l’amico De Gennaro glieli ha dati in un lampo. Tutto falso, come inventato il ruolo di Arnaldo La Barbera, descritto come a disposizione per quella bisogna: questore, poliziotto di rango, a quel tempo era morto da due anni! Anche la menzogna più spinta ha bisogno di un briciolo di credibilità. Così si scopre, non senza sforzi investigativi, che il favore, ma in tempi burocratici rispettati, glielo ha fatto un “signor Franco” che non è l’oscuro manovratore di un servizio segreto con missioni inconfessabili, ma il proprietario di un bar di piazza Euclide, ai Parioli, che si chiama Franco e fa i caffè. Ciancimino bazzicava il bar, girava da quelle parti, nello studio di un avvocato amico del padre, con fardello di capi d’accusa e di condanne.



Smentito dai testi e dalla stessa moglie, l’imperturbabile Massimo si è avventurato in altri impegnativi racconti: prima dice d’essere amico di De Gennaro, poi di averlo intravisto un paio di volte, poi di avere rapporti con lui per interposta persona, d’esserne il confidente e di ricevere altrettante succose confidenze. Prove? Zero. Millanterie, bugie infantili, ritrattazioni impacciate, smemoratezze, lampi e rigurgiti di memoria che svaporano nella nebbia delle contraddizioni. Ma c’è del fiele nel disegno. Queste calunnie non sono un venticello, appaiono una specie di uragano, un progetto assai ambizioso capace di trasformarsi alemno nelle intenzioni dei suo fabbricanti in una bomba micidiale.



C’è dentro tutta la cultura mafiosa del bacio della morte, del dire e non dire, dell’affermare per smentire e per rimandare ad altre verità, tutte ovviamente sconvolgenti. Tutte appena abbozzate, mischiate sapientemente alla salsa dei “questo non lo ricordo”, “per adesso non me lo ricordo”. Tecnica corsara e avventurosa, non priva di rischi, come s’è visto. Il “signor Franco” che trama non è dunque De Gennaro e lo si cerca ancora semmai si volesse escludere l’uomo che fa i caffè a piazza Euclide. Poi il capitolo delle carte. Uno stuolo di periti della polizia scientifica ha letteralmente demolito la “formidabile documentazione” fornita ai giudici da Ciancimino, il quale si è fatto cura di estenderne la conoscenza anche alla stampa. La pentolaccia deve bollire sempre.



Appunti fotocopiati e attribuiti al vecchio don Vito e però maneggiati, manipolati con fotocopiatrici d’ultima generazione, in un valzer infinito di falsi organizzati che mostrano o una straordinaria temerarietà o una incoscienza psichiatrica. Con l’aria ispirata di chi finalmente svela i segreti dei legami tra Stato e Mafia questo personaggio che appare assai più burattino che burattinaio ha sparso i suoi gas tossici per quattro anni, a ondate successive, instancabilmente. Faticoso venirne a capo. Anche le istituzioni ne pagano il prezzo. Un dossier degli avvocati di de Gennaro, parte civile, Franco Coppi e Francesco Bertorotta, ricostruiscono come in un romanzo siciliano tutta la trama calunniosa: rileggere la sequenza degli interrogatori spavaldi o intimiditi a seconda della convenienza di Ciancimino, fitti di incongruenze macroscopiche, significa avventurarsi in una ragnatela che lascia intravvedere in controluce un disegno criminale: trascinare nel fango servitori dello Stato per il loro ruolo nella lotta alle cosche.

Il carcere duro per i boss mafiosi si deve anche alla determinazione di De Gennaro, allora al vertice della Dia e a Giovanni Falcone con il quale collaborò fino alla strage di Capaci. De Gennaro, per sua scelta coerente, non rilascia interviste. A un collega, con trattenuta amarezza, si è sfogato: «Spendo soldi per difendermi dalle infamie, ma era nel conto, con la mafia è così, la calunnia come arma letale». È già accaduto, temibilmente accadrà ancora, che dalle gabbie o dalla latitanza Cosa Nostra cerchi la rivincita e poiché le trame oscure sulle quali far luce ci sono veramente, occorrerà separare con freddezza e lucidità il vero, il verosimile dal falso. A marzo ci sarà il processo. Ma un primo punto fermo è stato fissato con la disarticolazione del castello delle infamità. Si stenta tuttavia a considerare questo ragazzotto viziato e tanto spesso preso a scappellotti dal padre (“con lui in vita non mi sarei mai permesso”, ricorda di continuo ricordando le sue stravaganze) come l’attore e insieme il regista della trama. Un burattinaio sta stretto nei soli panni di un burattino.