L’ergastolo, l’inferno e la certezza della pena

di Giovanni Sabbatucci
3 Minuti di Lettura
Venerdì 24 Ottobre 2014, 23:45 - Ultimo aggiornamento: 23:58
Fine pena: mai. La formula scritta sul certificato penale dei condannati al carcere a vita può apparire disumana nella sua crudezza. E per molti contrasta con l’idea cristiana di un perdono e di una redenzione sempre possibili, oltre che con un principio-cardine della nostra civiltà giuridica sancito nella Costituzione, quello che fa riferimento al carattere rieducativo, e non semplicemente punitivo, della pena. Per questo un ampio fronte garantista, con in prima fila i radicali di Pannella, chiede da molto tempo che l’ergastolo esca una volta per tutte dal novero delle pene previste dal nostro ordinamento. A queste voci ha aggiunto ora la sua anche Papa Francesco, che ha definito l’ergastolo “una pena di morte nascosta”. Una presa di posizione forte e inequivocabile, da parte di chi è capo di uno Stato che ha da poco cancellato l’ergastolo dal suo codice penale, ma è anche e soprattutto capo di una Chiesa che per la verità ancora prevede per chi muoia nel peccato la possibilità della pena eterna.



Ma non confondiamo la teologia col diritto. Chiediamoci piuttosto se l’abolizione pura e semplice del carcere a vita sia oggi cosa giusta, utile e fattibile (a prescindere dalla sua scarsa popolarità, che non dovrebbe contare su temi come questo). E qui i dubbi sono molti e tutti leciti, anche per chi si è sempre professato garantista e condivide parola per parola le ultime dichiarazioni del Papa in materia di custodia preventiva e di inumanità delle condizioni di vita in molte carceri italiane.



Alcuni di questi dubbi - per esempio circa il possibile ritorno in libertà degli autori di crimini efferati - li ha espressi ieri su queste colonne Lucetta Scaraffia. E i suoi argomenti mi paiono più che sensati. Ma c’è un altro argomento che viene logicamente prima di tutti gli altri e in qualche modo li sostiene: contrariamente alla pena di morte, l’ergastolo è una misura reversibile. Può essere comminato (ormai nel nostro paese avviene sempre più di rado), ma può essere anche rivisto, mitigato o di fatto revocato, come già oggi può accadere in Italia, tranne che per i colpevoli di alcune fattispecie di delitti considerati di speciale gravità, come quelli di mafia, che comportano l’esclusione dai normali benefici penitenziari. Su questo punto è possibile, anzi doveroso, intervenire per via legislativa, proprio per offrire a tutti i detenuti, pentiti e non, l’opportunità e la convenienza di un ravvedimento.



Se viceversa l’ergastolo fosse abolito per legge, lo Stato si priverebbe, e questa volta irreversibilmente, non solo di uno strumento di deterrenza, ma anche di un possibile incentivo premiale. Assassini seriali e stragisti ideologici - come il norvegese Anders Breivik, che, nel 2009, all’età di ventidue anni, uccise settantasette persone, per lo più suoi coetanei, e non si è mai pentito - potrebbero, anzi dovrebbero, tornare in libertà a prescindere da qualsiasi percorso di riabilitazione e di recupero: al limite anche se annunciassero la loro intenzione di commettere nuovi crimini. E che cosa ne faremmo dei nostri killer mafiosi, non tutti anziani come Riina e Provenzano? Come impedire che, se usciti dal carcere duro (anche troppo duro) ancora in condizioni di nuocere, riprendano a delinquere come e peggio di prima? Non dimentichiamo che fra i doveri dello Stato c’è anche quello di assicurare la sicurezza dei cittadini nel rispetto della legge; e obbligo del legislatore è approntare gli strumenti adatti a questo scopo.



Meglio allora limitarsi a rimettere un po’ d’ordine nel sistema delle pene, rinunciando a quei “trattamenti contrari al senso di umanità” che la Costituzione stessa inibisce, alleggerire la pressione umana nelle carceri per farne strumento di rieducazione o almeno di civile espiazione, tenere viva nel condannato la speranza di recuperare un giorno la libertà o di fruire di qualche forma di semi-libertà. Per questo non serve cancellare dal codice la pena dell’ergastolo. Basterebbe usarla come soluzione estrema e non necessariamente definitiva. Forse ci si potrebbe rifare, in questo caso, a un vecchio dibattito nella Chiesa di una trentina di anni fa, quando un celebre teologo, Hans Urs von Balthasar, lasciò intendere (la frase fu poi smentita ma l’idea rimase in circolo) che l’inferno esisteva davvero, ma poteva anche essere vuoto. O quanto meno assai poco frequentato.