L’atletica e le nuove frontiere del doping

di Piero Mei
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Sabato 29 Agosto 2015, 00:39
Il mondo dell’atletica sta per chiudere la sua rassegna globale domani a Pechino e non c’è angolo della Terra nel quale sia passata indifferente la vittoria del Bene contro il Male: Bolt ha battuto Gatlin due volte, tutte e due le volte che l’ha incontrato, sui 100 metri, la corsa delle corse, e sui 200.



Bolt è il Bene: è passato indenne a tutti i controlli antidoping cui è stato sottoposto, perfino quando la schiuma nera ha circondato come uno tsunami la sua Giamaica, l’isola della velocità, ed è sembrato che la locale Federazione fosse ben disposta a chiudere un occhio, quando non tutti e due, e che i prodi velocisti, uomini e donne, fossero veloci altrettanto nel trovare la giustificazione, la scusa, che poteva perfino apparire credibile ai più volutamente distratti. Bolt, fra l’altro e fortunatamente, è scampato perfino al cameraman che si è rovesciato su lui per cogliere l’attimo del vincitore.



Ma, in quest’oro di Bolt in cui tutto riluce, si specchia anche il lato oscuro dello sport, nel caso dell’atletica che però non è sola nella sua corsa al risultato ad ogni costo, anche a quello di mettere a rischio la propria salute futura, oltre la veridicità del risultato sul campo (o in cima a una montagna, per dire del ciclismo).



Così, ecco che nella lista delle concorrenti alla marcia di ieri mattina mancavano del tutto le ragazze russe, chiacchierate assai negli ultimi tempi; ecco che sulla freschezza del Kenya, i cui slanciati podisti Masai e Nandi, le tribù di lunga corsa, adesso sono accompagnati da lanciatori e anche da corridori e ragazze che hanno accorciato la propria gittata, s’allunga l’ombra del doping sul magnifico medagliere in arrivo. Anche la Federazione kenyana sembra sotto tiro: non solo per quei cambi di cittadinanza un po’ troppo repentini e capaci di ripulire i documenti d’identità di tanti lussuosi migranti della pista, ma anche per la possibile ripulitura anche di muscoli e sangue.



E la cultura del sospetto, anziché venire estirpata, prolifera, specie quando si fanno sconti ai pentiti o si consente che, scontata la pena solitamente oggetto di ulteriori sconti, ci si possa presentare a un mondiale o all’Olimpiade come se nulla fosse. È vero che la squalifica a vita è come un ergastolo, se non proprio una pena di morte, condanna ormai ripudiata da ogni cultura giuridica che vede nella pena anche la possibilità di riconversione del colpevole. È anche vero, e mica solo per retorica, che lo sport dovrebbe nutrire e nutrirsi di valori più alti di quelli di nostra vita quotidiana.



C’è poi da dire che non è mai stato preso in considerazione un lato non secondario della questione: chi e come risarcisce il primo individuo truffato, lo sconfitto? Un conto è ricevere la medaglia d’oro sul terreno di Olimpia, come fecero due lanciatori di peso, uomo e donna, ad Atene 2004, entrambi poi risultati positivi al doping, un conto a casa per posta, come accadde agli sconfitti. Un conto anche economico.



Poi c’è il lato ancora più oscuro dell’affare antidoping: i sempre più costosi controlli con nuove metodologie entro otto anni dal prelievo hanno un qualche senso specie se poi molto passa in cavalleria? Nell’atletica ci sono record del mondo che resistono, neppure avvicinati, da trent’anni o giù di lì. L’uomo ha migliorato ogni sua prestazione: possibile che solo lì sia andato indietro? Menomale che Bolt, almeno Bolt, è andato avanti: a Gatlin, per cominciare.