«Twin-Set, miracolo italiano»

«Twin-Set, miracolo italiano»
di Maria Latella
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Giovedì 18 Dicembre 2014, 21:40 - Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre, 00:22
Se non conoscete la storia di Tiziano Sgarbi e Simona Barbieri, sposati, due figli biologici e uno aziendale che si chiama Twin-set, mettetevi comodi e state a sentire come la racconta lui, classe 1960, da Carpi.

E' la storia di un brand italiano della moda entrato a far parte del programma Elite della Borsa di Milano, quello che aiuta le aziende promettenti a prepararsi per un eventuale salto in Borsa. Ma è anche la storia di un'azienda nata per reagire a un semi fallimento. Per Twin-set l'ideogramma cinese che si può leggere in due diversi modi, crisi ma anche opportunità, corrisponde al millimetro alla loro storia. E a quella catastrofe di metà anni 90 da cui tutto è ricominciato.



«Sono nato in una famiglia che a Carpi gestiva un'aziendina nel settore. Ragazzino, stendevo i tessuti per dare una mano a mia madre. E' morta che io ero giovanissimo e ho deciso di continuare. Carpi era allora la Cina d'Europa, produceva per tutti. Aziende piccole, versatili. Il lavoro svolto fuori azienda, e si facevano grandi margini di guadagno. Certe aziende raggiungevano centinaia di miliardi di fatturato. Erano i primi anni ’90, sembrava che la cuccagna non finisse mai. Non ce n'è neanche più una di quelle aziende lì».



A voi che è successo?

«Saremmo finiti anche noi come loro. Invece, per fortuna, una catastrofe ci ha salvato. Un grosso cliente tedesco di punto in bianco non ci pagò. Fummo obbligati a stringere la cinghia, a riflettere, mentre le cose agli altri andavano così bene che nessuno si fermava a pensare al dopo. Un giorno vado a una riunione di Confindustria meccanica. C'era Vasco Errani, 2002-2003. Lo sento parlare, intuisco che non aveva alcuna idea di quel che si stava preparando per il nostro settore. Pensavano fosse una crisi passeggera e invece era una rivoluzione».



Il limite insomma è della classe politica ma anche vostro, degli imprenditori.

«Non siamo riusciti a trasmettere alle generazioni successive una visione meno provinciale dell'impresa. Ci siamo sempre considerati reucci delle nostre aziendine».



Un altro serio limite è la tentazione dell'imprenditore di dare poco spazio ai manager e molto ai figli. E' così?

«Mai pensato che la mia azienda debba per forza essere ereditata dai figli. Ne abbiamo due, 26 e 21 anni, e vorremmo fossero felici. Il ragazzo studia storia dell'arte a Bologna, al Dams. La ragazza ha fatto la St Martin a Londra. In azienda? Non la voglio. Vorrei che si facesse le ossa fuori. Ne ho viste troppe di aziende andar male solo perché arriva tuo figlio».



Twin-set offre un total look, dalle maglie, alle scarpe, alle borse. Previsioni?

«Il mercato si va restringendo. Come si fa a restare in pista? Devi essere più bravo. Devi fare un prodotto giusto, al prezzo giusto, comunicato bene. La palestra del mio prodotto sono i classici clienti multimarca. Il nostro progetto è fare fatturato con un 50 per cento dalla vendita diretta proveniente dai negozi di proprietà. Il restante 50 per cento dai retail multimarca».



Il Paese sul quale puntare?

«La Cina. Il 2015 per noi sarà l'anno giusto. Andiamo a costruire una joint venture e ad aprire un negozio a Hong Kong. Noi siamo lusso accessibile e dobbiamo tener conto di quanto è successo ad altri: in tanti, nella nostra fascia, in Cina si sono fatti male. Perché? Comunicare è un problema, molti cinesi non parlano inglese e ci sono tanti dialetti...».



In Cina, come in Russia, rallentano i consumi dei beni di lusso e si allarga la fascia dei consumatori medi. Un vantaggio, per voi.

«Siamo tutti messi a dura prova ma è anche un momento di grandi opportunità. Va bene a chi non ha smantellato la produzione in Italia. Oggi produrre tutto all'estero può essere un rischio. Produrre in Italia dà al marchio un appeal diverso. I tempi sono più corti e il controllo è diretto».



L'identikit della cliente Twin-set?

«Il nostro è un brand trasversale. Dai 18 agli ultrasessanta. Siamo stati bravi a creare identità sul marchio. E' riconoscibile».



Il lusso durerà?

«I brand del lusso si sono posizionati nei nuovi mercati a un livello più alto di quanto non fossero in Europa. Oggi i cinesi viaggiano. Quel che costava 1000 in Europa, costava 2000 in Cina. Cosa hanno fatto? Hanno alzato i prezzi in Europa e hanno tolto un sacco di mercato locale. Ci muoviamo in un territorio che cambia. Spendere tanto in un vestito oggi non è più di moda. Non ti senti più figo. Un brand come il nostro intercetta questa nuova tendenza al consumo medio».



Si dice spesso che gli imprenditori italiani non reinvestono gli utili in azienda.

«Noi abbiamo sempre reinvestito. Ma l’imprenditore italiano spesso non lo fa perché non ha fiducia in se stesso, né nello Stato. L'azienda è un contratto a termine. I francesi si sentono tutelati dal loro Stato. Gli italiani no».



Quante ore lavora?

«Non credo che si riesca a lavorare bene più di otto ore. Esco di casa a Carpi alle 8 e torno alle 8».

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