Lo spiraglio che va oltre le statistiche

di Giuliano da Empoli
3 Minuti di Lettura
Venerdì 6 Marzo 2015, 23:19 - Ultimo aggiornamento: 7 Marzo, 00:15
Sono bastati un paio di dati un po’ meno catastrofici del solito a cambiare l'atmosfera. Sarà il nuovo corso politico, sarà l’Alba di Jovanotti, saranno i primi segni della primavera, fatto sta che ora molti aspettano la ripresa. Anche perché c’è da dire che la stessa aria si respira un po’ in tutta Europa, nonostante la crisi russa e le incertezze che continuano a gravare sulle sorti dell’Eurozona.

A questo stadio è un po’ presto per fare previsioni. Nessuno è in grado di dire se i primi timidi segnali - sul fronte dell’occupazione come su quello della produzione industriale - sono l'avvisaglia di un movimento più consistente o l’impercettibile oscillazione di un encefalogramma destinato a rimanere sostanzialmente piatto.

Una considerazione, però, la si può già arrischiare: forse questa è l’occasione per uscire dalla rassegnazione che ci accompagna ormai da più di un decennio. Chi sta cadendo non fa progetti - scriveva Ennio Flaiano - spera solo di potersi fermare. Questa è stata la tragedia dell’Italia negli ultimi anni. La sensazione di una caduta inarrestabile, di fronte alla quale c’era solo da tirare i remi in barca per limitare i danni. Ancora oggi, interi percorsi politici - come quello di Matteo Salvini che ha sfilato sabato scorso per le vie della capitale - si fondano su questa visione sconsolata. Il nuovo incubo italiano contrapposto al nuovo miracolo troppe volte evocato e smentito in passato.



Ora, i dati ci danno un po' di respiro, riaprono qualche spiraglio. Si torna a parlare di educazione, di cultura, di un ruolo per l'Italia che vada oltre la I di Pigs (in alternanza con l'Irlanda). Ma la verità è che non dovremmo dipendere dai dati per alzare lo sguardo dalle emergenze quotidiane e riprendere a ragionare in termini strategici.



Alla fine del 2013, Larry Summers - ex ministro del Tesoro di Clinton e formidabile cervello economico - ha sconcertato il suo uditorio prevedendo, in una conferenza del Fondo Monetario, un secolo di stagnazione per gli Stati Uniti. Secondo lui, i tempi della crescita esponenziale sono conclusi, lo stato normale dell’economia è quello di una leggera depressione ravvivata di tanto in tanto da qualche bolla speculativa, e le menti migliori dovrebbero impegnarsi per capire come continuare a gestire in armonia una società più o meno condannata alla stasi economica.



La crescita non è garantita neppure negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia. Bisogna fare tutto quel che si può per generarla, ma non possiamo ridurre l’identità di un Paese che illumina il mondo (sia pure in modo intermittente…) da duemila anni ad una statistica economica, per importante che sia. Il Giappone, ad esempio, resta uno dei Paesi più avanzati del pianeta - e un formidabile laboratorio di innovazione - anche dopo vent’anni di crescita zero. Puntare sui fondamentali, sull’educazione e sulla cultura, serve a rafforzare le prospettive di crescita di lungo periodo.



Ma serve soprattutto a riaffermare ciò che siamo: un luogo unico che fonda da secoli la propria identità sulla cultura e sulla creatività irriducibile di milioni di individui.

Troppo spesso la crisi ce l’ha fatto dimenticare, spingendoci alla ricerca di improbabili modelli stranieri fino al punto di mortificare il nostro. Cos’è stata, ad esempio, la cancellazione della storia dell’arte dai programmi delle scuole se non l’assurdo tentativo di sacrificare la nostra specificità sull’altare di una presunta modernità globale?



Le riforme - dal lavoro alla scuola, dalla governance dei musei alla Rai - devono servire prima di tutto a questo: non a scimmiottare per l’ennesima volta un modello importato dall’estero, ma a restituire smalto allo specifico modello italiano. La speranza chiaramente è di crescere ancora. Ma tornare a essere noi stessi è un obiettivo ancora più importante.