I rischi per l’euro/ La scorciatoia di Atene nell’Europa senza visione

di Giulio Sapelli
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Martedì 30 Giugno 2015, 22:52 - Ultimo aggiornamento: 1 Luglio, 00:05
In queste ore drammatiche che segnano il destino tanto della Grecia quanto dell’Unione Europea, tornano alla mente le parole con cui Valery Giscard d’Estaing alla fine degli anni Settanta del secolo scorso cercava di convincere i suoi interlocutori riluttanti sulla necessità di accogliere la Grecia nell’Unione, vincendo in primo luogo - la storia si ripete - le perplessità di quel grande leader che era Helmut Schmidt. Queste parole erano «On ne ferme pas la porte a Platon». Ben evidente era l’obiettivo politico di Giscard d’Estaing: la Grecia doveva raggiungere l’Unione (nella Comunità economica europea era già stata ammessa nel 1979) non solo per consolidare la sua democrazia, ma altresì per bilanciare in Europa il ruolo del Regno Unito. Il suo peso era economicamente modesto, ma strategicamente importante per la sua adesione alla Nato che risaliva agli anni Cinquanta. Un obiettivo, dunque, tutto politico e ben contrario a quello infelicemente enunciato dalla cancelliera Merkel: «Se cade l’euro cade l’Europa». La Merkel ha introiettato sin nel profondo la subordinazione della politica alla finanza. L’euro, del resto, è stato il frutto di una decisione politica e non economica ed ha le sue radici in una errata teoria economica che sottovaluta le disastrose conseguenze che esso portava con sé, ossia la configurazione delle tecnocrazie e dei poteri finanziari che ne seguì, non essendosi conseguita prima della sua coniazione l’unione politica europea.

Intendiamoci. Doveva essere, avrebbe dovuto essere, una unione politica vera, fondata sulla democrazia parlamentare ossia sul potere superiore del legislativo, degli eletti su scala europea e non - come è oggi - quella mostruosità giuridica inedita nella storia mondiale per cui i cittadini europei eleggono un parlamento senza poteri mentre commissari, ambasciatori, tecnocrati et similia decidono ogni cosa. Tutto questo armamentario barocco ha dato vita all’eurocrazia che mentre dilavava l’Europa da ogni idealità e la frantumava nel gioco dei pesi e delle rilevanze nazionali, assicurava il dominio tedesco sull’eurocrazia.



Esso si dilatava con le conseguenze tragiche dell’applicazione dei dogmi della politica economica ordoliberistica che portava via via l’Europa nell’inevitabile recessione prima e nella stagnazione da deflazione poi in cui siamo immersi. In questo cupo angusto orizzonte non vi è posto per Platone e non poteva che finire in Grecia e in Europa come è finita. Basta leggere i giornali stranieri (con il nostro Messaggero) per capirlo. Tutti gli osservatori internazionali sono costernati per il dilettantismo e il rigore che vela il fanatismo con cui la Merkel e i suoi vassalli - socialisti compresi - hanno impostato la trattativa. Anche Platone tuttavia sembra che non goda più del suo smalto filosofico, se guardiamo al coraggioso - sia pure al limite della temerarietà - comportamento dei suoi successori che come è noto io seguo con simpatia.



Bene ha fatto Syriza a impostare la sua battaglia non contro l’euro ma contro la politica economica dell’austerità che ha portato il popolo greco nella povertà e nell’indigenza così come sta portando verso la stessa sorte tutti i popoli europei. E bene ha fatto ad aprire la battaglia sulla rivendicazione del primato della politica sull’economia. Vittorioso nelle urne, Alexis Tsipras doveva affermare che il tempo dei piloti automatici che guidano il carro, quale che siano i passeggeri, era finito. I governi nazionali devono poter far sentire la propria voce e negoziare e non subire. Ma debbono farlo seguendo la via della democrazia parlamentare e non referendaria. Quest’ultima non è mai la via migliore per unire principio di maggioranza e ragionevolezza.



Rischia di scaricare sull’elettorato, sull’opinione pubblica, la responsabilità di scelte anche difficili, che dovrebbero pesare esclusivamente sui governi.
E non è una scelta opportuna soprattutto in tempi difficili come gli attuali. Il referendum - che verte certamente sull’accettare o no il diktat dei creditori - può pericolosamente trasformarsi in un pronunciamento anti-Europa più che anti-euro. Questo non solo non lo vuole certamente la maggioranza del popolo greco, ma neppure Tsipras e la maggioranza del suo partito. Indirlo é stato un grave errore. È ora necessaria una chiara dichiarazione da parte sia di Tsipras sia di Syriza che affermi la volontà di proseguire con l’euro e in Europa la battaglia: non bisogna disperdere il lavoro compiuto in questi mesi per far comprendere agli europei che solo la politica, la politica dei parlamenti nazionali e di quello europeo, può salvare i popoli salvando un’altra idea di Europa. Un’altra idea che non è quella della cancelliera Merkel.