Flessibilità, l’Italia e lo strappo con la Ue
Così Parigi e Berlino nel 2003

di Osvaldo De Paolini
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Martedì 16 Settembre 2014, 22:47 - Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 22:52
ROMA «Visto?», diceva l’altro ieri Matteo Renzi ai suoi nel commentare la gelata sul Pil anticipata dall’Ocse. «E’ la prova che con il cieco rigore di bilancio si muore di recessione. Serve una scossa. A Bruxelles ci faremo valere, difenderemo l’interesse nazionale». Come? Renzi non lo ha precisato nemmeno ieri davanti al Parlamento, ma si può scommettere che sta seriamente pensando di imitare quanto Francia e Germania fecero nel 2003, non tanto relativamente al parametro del 3% deficit/Pil che Berlino e Parigi violarono impunemente per oltre tre anni, quanto al rispetto del fiscal compact - che prevede il pareggio di bilancio già nel 2015 - e alla riduzione del debito secondo i limiti prescritti.

SCENARIO CAMBIATO

«Rispetto al 2003 i tempi sono cambiati e i rapporti di forza in Europa anche: ho qualche dubbio che la cosa potrebbe ripetersi oggi senza conseguenze per il Paese che decide di assumere iniziative autonome. I mercati sono più rapidi, e molto più speculativi. Però allora la doppia violazione ebbe luogo, e la Commissione subì uno smacco mai veramente assorbito». Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione europea, ricorda con amarezza quei momenti. Ma anche con rabbia, come ha sottolineato qualche settimana fa di fronte alla platea di Cernobbio nel rispondere a un Lorenzo Bini Smaghi che tentava di far passare l’episodio come «la prima applicazione intelligente del Patto di Stabilità» e lo sforamento del parametro del 3% come una «concessione di Bruxelles a una legittima richiesta di Parigi e Berlino». «Ma quale concessione, quale applicazione intelligente del Patto, non ci chiesero un bel nulla, fu una rivolta in piena regola - replica Prodi a quelle parole - Se lo presero, il diritto di sforare. E alla nostra osservazione che stavano violando i Trattati e che in tal modo veniva messa in discussione la sovranità europea, ci apostrofarono dicendo che stavano facendo l’interesse dei loro Stati e che nessun obbligo poteva essere loro imposto».

Insomma, la Germania di Angela Merkel che oggi chiede quotidianamente all’Italia rigore e rispetto dei patti, vanta un passato recente non proprio specchiato in materia di esaltazione degli accordi europei. E per quanto la letteratura sull’episodio sia assai scarsa oltre che controversa, è possibile ricostruire quanto accadde a Bruxelles in quelle nove ore concitate a cavallo tra il 23 e il 24 novembre 2003. Furono momenti di grande tensione per l’Europa, costretta in un braccio di ferro tra la Commissione presieduta da Prodi da una parte e i governi tedesco e francese (allora guidati da Gerhard Schröder e Jacques Chirac) spalleggiati dal governo Berlusconi dall’altra. A quanti lo interrogano oggi, Prodi non esita a spiegare che quella riunione del Consiglio Ecofin aveva un ordine del giorno composto da tre punti: la deviazione reiterata dal parametro del 3% da parte di Francia e Germania, l’avvio delle rispettive procedure di infrazione e la proposta delle sanzioni connesse. «Non credevamo alle nostre orecchie. Ci intimavano di tacere - ricorda Prodi - Secondo loro non avevamo potestà per obbligare chicchessia. E quando capimmo che l’appoggio dell’Italia, con Tremonti (presidente di turno di Ecofin, ndr) che li spalleggiava apertamente, non ci avrebbe portato da nessuna parte, proponemmo di affidare la valutazione dei fatti a un organismo terzo, vale a dire a Eurostat già pienamente operante». Ebbene? «La risposta fu disarmante: non se ne parla, dissero, non si buttano via così i denari dei cittadini. Noi a questa regola non obbediamo».

Era da molto passata la mezzanotte quando il Consiglio Ecofin terminò, e nonostante l’opposizione netta di qualche falco del rigore, la Raccomandazione della Commissione venne approvata solo dopo la cancellazione di ogni riferimento giuridico alle condizioni del Trattato. Sicché, la richiesta a Berlino e a Parigi di una immediata manovra correttiva di bilancio con annessa procedura d’infrazione che si sarebbe certamente conclusa con una sanzione dura (probabilmente il blocco infruttifero di una somma consistente da liberare a conti sistemati) finì nel nulla. Il ricorso alla Corte di Giustizia che seguì non ebbe sorte migliore.

SCELTA AMLETICA

Ora, se non è difficile intuire perché il governo italiano di allora si schierò a favore della violazione (che Tremonti definì «corretta interpretazione dei Trattati») considerando il modesto credito di cui ancora godeva l’Europa nella sua veste di controllore, è innegabile che quella decisione è probabilmente tra i motivi degli eccessi odierni: così facendo, infatti, gli azionisti di maggioranza dell’Unione (Germania, Italia e Francia) legittimarono in un certo senso i colossali falsi che costellavano i bilanci greci contribuendo a gettare le basi del rigore esasperato che sta piegando l’economia italiana ed europea.

Paradossalmente, lo strappo che Renzi ha in animo di attuare avrebbe motivi assai più solidi di quelli vantati da Francia e Germania, visto che in gioco oggi vi è la ripresa economica del Continente oltre che dell’Italia. E tuttavia se la strada imboccata sarà davvero quella della flessibilità «che ci diamo noi», il premier dovrà curare attentamente la comunicazione. In agguato non c’è infatti solo Bruxelles con le sue sanzioni, ma un guardiano vorace che non perdona: il mercato e i suoi mille agenti speculatori, capaci di fermare anche lo Stato più determinato se il piano non convince.