Le regole sbagliate che frenano l'Europa

di Marco Fortis
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Lunedì 27 Luglio 2015, 00:09
Le indiscrezioni secondo cui il ministro delle finanze tedesco Schaeuble sarebbe il padre di un possibile progetto di eurotassa per rafforzare finanziariamente l’Unione, condiviso dal Presidente della Commissione Juncker, ha già suscitato molte reazioni di segno opposto. In attesa di conoscere meglio la natura della proposta sospendiamo il giudizio, ma non possiamo non nutrire perplessità sul modo di procedere a strappi di una Europa che dovrebbe invece riesaminare in modo organico e coordinato tutto l’insieme delle sue regole di finanza pubblica.



L’Eurozona, infatti, da tempo si è messa addosso una camicia di forza che a poco a poco l’ha letteralmente paralizzata e alla fine l’ha privata anche della crescita, senza la quale, in economia, è come morire dissanguati. La moneta unica, per eccesso di precauzione, ha indossato dapprima l’usbergo del Patto di Stabilità e Crescita (fondato sul 3% di deficit/Pil e sul 60% di debito/Pil: parametri peraltro del tutto arbitrari, che non hanno nessun fondamento nella teoria economica, come già scriveva Luigi Pasinetti negli anni ’90). Poi, in aggiunta, l’Eurozona si è anche appesantita con la corazza supplementare del “Fiscal Compact” (che prevede da parte dei Paesi membri l’obbligo della riduzione annua del 5% della parte di debito/Pil eventualmente eccedente la soglia “ideale” di debito/Pil del 60%).



E infine si è dotata di ulteriori ammennicoli, come il surreale pareggio di bilancio inserito a forza, più o meno consapevolmente, nelle Costituzioni nazionali (ma perché Cina, Usa, Uk, Giappone non si sognano assolutamente di fare lo stesso?).



Risultato: quando nel 2008, dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi mondiale ha azzoppato un po’ dappertutto il cavallo della crescita, l’Eurozona si è trovata prima appiedata e poi viepiù impedita dalla sua stessa corazza che, in tempi normali, sulla carta avrebbe dovuto proteggerla, ma in realtà in tempi eccezionali l’ha esposta ai pericoli del fallimento dello stesso progetto della moneta unica. Col paradosso che le agenzie di rating hanno punito molti Paesi dell’Eurozona per il mancato rispetto delle regole che l’Eurozona stessa si è rigidamente data, e non per altri parametri ben più significativi di economia reale o finanziaria che vedono oggi l’area dell’euro messa molto meglio di Uk, Usa, Giappone. E, va anche detto, senza gli sforzi di Draghi a un certo punto sarebbe stato sufficiente un semplice soffio per far cadere rovinosamente a terra l’irrigidita brigata dell’euro imbrigliata nella sua stessa armatura.

Che senso ha, nel 2015, fissare per i Paesi della moneta unica un tetto insindacabile del debito/Pil al 60% quando Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone, se ne disinteressano totalmente, e nel 2014 si trovano, rispettivamente, al 90%, al 105% e al 246% del debito pubblico/Pil? Che senso ha pretendere dai Paesi membri dell’Eurozona una riduzione a tappe forzate di un ventesimo all’anno della parte eccedente il loro debito pubblico/Pil rispetto al livello (ottimale?) del 60%? Cosa che a nessun altro Paese al mondo verrebbe in mente di fare? E che senso ha, poi, consentire invece alla Germania di sforare per molti anni il limite di avanzo corrente con l’estero senza sanzionare Berlino?



La montagna di contraddizioni dell’Eurozona è esemplificata dal fatto che nel 2007 l’Italia, con un debito pubblico/Pil al 99%, era considerata un Paese “critico”, mentre oggi allo stesso livello, cioè al 99%, si trovano Francia e Spagna (e nessuno dice loro nulla) mentre gli Usa sono addirittura ben oltre il 100%.



Ma questo è niente rispetto ad altre miopie dei parametri dell’Euro-burocrazia. L’Eurozona, nella stesura delle proprie “regole ferree”, prima ha clamorosamente ignorato la pericolosità del debito privato (che ha azzoppato Irlanda e Spagna e ha messo in difficoltà anche Olanda, Belgio nonché la stessa Germania), poi dilettantisticamente non ha fatto distinzione alcuna tra debito pubblico estero e interno. Un errore, questo, molto grave del Trattato di Maastricht e poi anche del “Fiscal Compact”.



La crisi della Grecia, ma precedentemente anche di Portogallo e Irlanda, dimostra infatti chiaramente che questi Paesi sono “saltati” non per un debito pubblico totale troppo elevato rispetto al Pil, bensì per un eccessivo debito pubblico finanziato da stranieri. Se un Paese ha un debito pubblico totale elevato, ma lo ha prevalentemente interno e dispone di una cospicua ricchezza finanziaria netta delle famiglie (che permette a banche e assicurazioni di comprare ingenti quantitativi di titoli di Stato), perché dovrebbe essere considerato una economia rischiosa? È il caso dell’Italia, il cui debito pubblico finanziato da non residenti nel 2014 è stato solo il 33% del debito pubblico totale, cioè il valore più basso nell’Eurozona dopo Lussemburgo e Malta (Eurostat, “In most Eu Member States, the largest share of public debt is held by non-residents”, 10 giugno 2015).



A Bruxelles farebbero perciò bene a chiedersi se oggi abbiano più senso le regole del Trattato di Maastricht e quelle ferree del Fiscal Compact o invece altri ben più importanti “fondamentali” dell’economia. Nel 2014, ad esempio, il debito pubblico estero dell’Italia è stato pari a solo al 44% del Pil, un valore più o meno simile a quello della Germania (42%), mentre la Francia è al 54% del Pil, l’Irlanda è al 68%, Cipro al 71%, il Portogallo al 91% e la Grecia al 144% (una situazione di default conclamato!). Nello stesso anno il debito pubblico interno italiano corrisponde soltanto al 48% della ricchezza finanziaria netta delle nostre famiglie. Una situazione, sia chiaro, non ideale, perché le nostre banche e assicurazioni che utilizzano tale ricchezza sono troppo esposte con lo Stato anziché prestare soldi all’economia reale. Ma una situazione che comunque dimostra la assoluta sostenibilità del debito italiano.



A Bruxelles, il Presidente Juncker e i Commissari che seguono minuto per minuto i conti pubblici dovrebbero dunque distinguere il grano dal loglio. Cioè tra Paesi, come l’Italia, che da tempo rispettano il 3% del deficit/Pil ed altri, come Francia e Spagna, che disattendono regolarmente questo obiettivo. Tra Paesi, come l’Italia, il cui aumento del debito pubblico negli ultimi 8 anni è stato finanziato quasi totalmente da investitori interni (che evidentemente ne avevano la capacità, diversamente da greci, portoghesi, spagnoli e irlandesi) ed altri Paesi che invece si sono fatti finanziare (in modo più o meno opportunistico, come Germania e Francia) la propria spesa pubblica prevalentemente dall’estero. Tra il 2006 e il 2014 il debito pubblico estero della Francia è cresciuto di 546 miliardi di euro, quello della Germania di 516 miliardi, quello della Spagna di 237 miliardi, quello del piccolo Portogallo di 84 miliardi e quello della minuscola Irlanda di 99 miliardi, mentre quello dell’Italia (Paese di oltre 60 milioni di abitanti) soltanto di 60 miliardi! Il che significa che la quasi totalità dell’aumento del debito pubblico dell’Italia degli ultimi 8 anni è stato finanziato dagli italiani stessi, cioè nazionalizzato. Provino la Grecia o la Spagna a farlo. Ed anche Francia o Germania! E poi vedremo quanto cresceranno i loro Pil!



Se aggiungiamo a tutto ciò il fatto che l’Italia, tra i grandi Paesi del mondo, è l’unico assieme alla Germania che, grazie al proprio avanzo statale primario positivo, è in grado di pagare virtualmente “cash” tutti gli interessi sul debito pubblico ai propri investitori esteri, mentre Obama, Cameron, Hollande e Rajoy li ripagano regolarmente da anni solo con l’emissione di nuovo debito pubblico (e ciò accadrà anche per molto tempo in futuro), si capisce perché è tempo che l’Eurozona cambi le proprie assurde regole sul debito. Fondandole sulla riduzione del debito pubblico estero anziché semplicisticamente di quello totale e sulla capacità virtuosa di ripagare in denaro contante gli interessi agli investitori stranieri, mediante un continuativo avanzo primario dello Stato.

Si capisce altresì, alla luce di questi dati ignorati dalla maggior parte degli analisti e degli osservatori, perché il Governo Renzi ha molte frecce nella sua faretra, oltre alla spending review che va perseguita con determinazione, per poter chiedere in Europa più margini di flessibilità allo scopo di ridurre le tasse in Italia e spingere la crescita. Nessun altro Paese in Europa, per riforme attuate o in cantiere e virtuosità dei conti, può oggi pretendere più flessibilità dell’Italia.



D’altra parte, un’Italia che possa rilanciare la propria crescita economica con più flessibilità di bilancio in cambio di riforme serve terribilmente all’Eurozona stessa, di cui il nostro Paese è la terza economia. Tenere imbrigliata l’Italia nella rete del Fiscal Compact per ragioni e parametri sbagliati è per l’area della moneta unica come possedere una Ferrari ma essere costretta a tenerla in garage e non poterla usare.