Commercio, la Ue rischia il monopolio americano

di Francesco Grillo
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Venerdì 31 Ottobre 2014, 22:56 - Ultimo aggiornamento: 1 Novembre, 00:04
Agli inizi degli anni Sessanta, in uno scambio di corrispondenze tra giganti, il matematico polacco Stanislav Ulam sfidò Paul Samuelson (il premio Nobel che meglio di chiunque altro ha descritto cosa produce la crescita di un Paese) ad indicargli almeno una teoria economica che fosse contemporaneamente vera e non ovvia. Dopo averci pensato alcuni anni, Samuelson spiegò le ragioni per le quali è la “teoria dei vantaggi comparativi” di David Ricardo - secondo la quale ad ogni aumento del commercio tra Stati corrisponde un incremento della ricchezza prodotta in ciascuno degli Stati coinvolti - quella che più di ogni altra ha cambiato il mondo, dando una base teorica al fenomeno che chiamiamo globalizzazione.



In effetti, è ancora il ragionamento aritmetico di Ricardo sui motivi per i quali è auspicabile che «il Portogallo produca solo vino e l’Inghilterra solo vestiti», a ispirare il negoziato tra Stati Uniti e Unione Europea che porterà a costruire la più grande area di libero scambio del mondo tra le due sponde dell’Atlantico. Un’operazione che avrà conseguenze enormi ma di cui pochissimi parlano e che la stessa Commissione Europea ha esplicitamente scelto di classificare come riservata, alimentando i sospetti di chi vede nella globalizzazione l’origine di tutti i mali. Già questa è una circostanza che rischia di far ripetere all’integrazione atlantica gli stessi errori che hanno indebolito quella europea, allontanandola dai cittadini.



In effetti, la posta in gioco è elevata. La storia insegna che la teoria ricardiana vale per un mondo statico: nella realtà che presenta una complessità molto maggiore di quella che gli economisti normalmente riescono ad accettare, può succedere che il Portogallo imbocchi una traiettoria di declino accelerata dall’abbattimento delle barriere, mentre l’Inghilterra costruisca un dominio incontrastato sulla libertà di scambio con gli imperi altrui.



Può essere vero - come sostiene la Commissione Europea – che attraverso il “partenariato transatlantico” (Ttip) si possa aggiungere mezzo punto percentuale all’anno al Pil di un continente stremato (e un altro mezzo all’economia americana); ma può anche succedere il contrario e cioè che il trattato aggiunga crisi alla crisi di un continente debilitato e non in grado, in questo momento, di reggere l’urto di un’ulteriore sfida competitiva.

Del resto l’idea del Ttip è semplice e potente. Innanzitutto, per aumentare gli scambi commerciali si fa affidamento più che sulla scomparsa (pur prevista) di dazi che non fanno più la differenza, su meccanismi di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni ad esercitare una professione o a vendere un determinato prodotto. Ciò produrrebbe effetti significativi su alcuni settori produttivi dominati da multinazionali; ma ancora più ampio è il potenziale impatto sui servizi che pesano quattro volte di più dell’industria sulla composizione del PIL ma cinque volte di meno sugli scambi commerciali. In secondo luogo, per incrementare lo scambio di investimenti produttivi, si stabilisce che per proteggersi da eventuali discriminazioni miranti a proteggere interessi nazionali, un’impresa possa fare causa ad uno Stato sovrano per chiedere una compensazione in un tribunale internazionale.



È evidente che il primo meccanismo produce grandi vantaggi per i consumatori se esso si traduce nella possibilità di accedere a prezzi più bassi ai beni e ai servizi di chi si specializza - come nella parabola ricardiana sui vantaggi comparativi - nel coltivare le proprie vocazioni: gli studenti italiani potrebbero più facilmente servirsi – grazie anche ai progressi delle tecnologie – dei prodotti formativi e dei certificati rilasciati dalle università americane; mentre i professori statunitensi si farebbero spedire a prezzi più bassi casse del vino italiano che maggiormente apprezzano. C’è, anzi, da aggiungere che una armonizzazione delle regole tra Stati Uniti e Europa potrebbe valere ancora di più se producesse standard comuni da applicare nei rapporti con altri Paesi; nei confronti dell’Africa, ad esempio, il cui sviluppo possibile dipende molto di più dall’abbattimento delle barriere – quelle che ostacolano le esportazioni dei prodotti agricoli e rendono care le importazioni di farmaci - che dalle campagne contro le carestie.



Tuttavia esso può creare grandi rischi non solo se l’armonizzazione delle regole dovesse essere al ribasso rispetto all’esigenza di tutelare la salute dei consumatori (un caso spinosissimo è quello dei cibi geneticamente modificati), ma soprattutto se al posto di mercati nazionali protetti dovesse emergere lo spettro persino peggiore di un unico mercato globale dominato da un monopolista (cosa che già succede in settori produttivi senza barriere come quelli dei software proprietari) che a quel punto non avrebbe più neppure lo stimolo a dover superare gli altri concorrenti.



Un ragionamento analogo vale per l’ancora più delicata questione di rendere sistematici i meccanismi internazionali di risoluzione delle dispute tra Stati e imprese: questa è un’innovazione fondamentale per andare verso il superamento di ordinamenti giuridici che sono sempre più incapaci di garantire la protezione di diritti fondamentali. L’idea andrebbe, semmai, completata dando agli stessi consumatori la possibilità di utilizzare quei tribunali per chiedere conto di abusi da parte di imprese troppo grandi e lontane per poter risponderne. Tuttavia il rischio è che essa diventi un ulteriore lesione di una democrazia occidentale – quella europea ma anche quella americana - resa già fragile dalla globalizzazione, se non si affronta la questione delicatissima di chi controlla il controllore. Un problema che rimanda alla ancora più difficile ma ineludibile riflessione sul governo politico di un “partenariato” intercontinentale come quello che il presidente Obama vorrebbe lasciare in eredità ai suoi successori prima della fine del suo mandato.

C’è, poi, la questione più specifica dell’Europa e dell’Italia. Anche ammettendo la possibilità di arrivare ad un accordo che garantisca la competizione leale, può riuscire un continente ammalato di scarsa crescita, austerità ed elevata disoccupazione a sostenere la competizione di un’economia che cresce molto di più, non rinuncia a generosi aiuti di Stato nei confronti dei propri campioni e si può permettere politiche monetarie espansive che l’Euro rende tecnicamente impossibili? Quali gli effetti della sfida per l’Italia e le poche multinazionali che ci sono rimaste come Finmeccanica ed Eni?



È evidente che se Samuelson fosse vivo ci raccomanderebbe di accompagnare l’intervento sulla riduzione delle barriere con un forte investimento – pubblico e privato – che consolidi i vantaggi competitivi che secondo Ricardo sono indispensabili per rendere virtuoso il processo. Laddove l’identificazione di tali aree di specializzazione può essere fatta solo raccogliendo conoscenza da tutti i soggetti, anche quelli piccoli, che possono fare innovazione sostenibile a livello internazionale.



L’integrazione commerciale come quella del “partenariato” con gli Stati Uniti e un investimento intelligente di un pacchetto come quello dei 300 miliardi di Euro a cui Junker affida le speranze di uscire dal tunnel della crisi devono diventare, allora, parte della stessa strategia. Strategia di cui è precondizione il coinvolgimento delle opinioni pubbliche su decisioni che cambieranno la vita delle persone e che sono assenti da un dibattito dominato solo dai riflessi locali di problemi che sono tutti per loro natura globali.