L’assordante silenzio sulla politica industriale

di Giulio Sapelli
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Mercoledì 25 Marzo 2015, 23:26 - Ultimo aggiornamento: 27 Marzo, 12:06
La crescita dell’economia occidentale continua a essere minacciata dalle discutibili opinioni di un pugno di economisti neo-liberisti che hanno giustificato con altrettanto discutibili papers la grande reazione delle corporation e delle banche d’affari, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta - contro ogni forma di regolazione dei mercati finanziari e di continuazione del processo di industrializzazione.

La crescita impetuosa che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra in tutto il mondo non soddisfaceva più gli appetiti voraci dei manager internazionali pagati in base al valore di azioni manipolabili a piacimento invece che con un salario sì elevato, ma che sanciva pur sempre quella divisione benefica tra proprietà e controllo. Iniziava, invece, la grande dissipazione finanziaria ad alto rischio, ad altissimo indebitamento, a sradicamento occidentale della grande industria manifatturiera, a creazione delle isole finanziarie in cui lo Stato imprenditore veniva artatamente assalito da ogni dove, creando leggende come quella che la corruzione si annidi più nelle attività pubbliche che in quelle private per giustificare privatizzazioni catastrofiche.

Ora siamo al dunque. La crescita manifatturiera in Europa si è spostata in primo luogo verso le piccole e medie imprese, costellazioni di cluster industriali ad altissimo potere innovativo e di nicchie potenti di creatività.

Tutto ciò nella contemporanea distruzione delle grandi imprese per ignoranza manageriale e per i troppi ostacoli alla crescita posti da uno Stato che depreda ma non costruisce. La crescita non poggia più sulla grande impresa. Si noti bene. Non conta la proprietà, ma l’occupazione: conta il controllo del territorio e dell’ambiente che circonda l’impresa.

Il Regno Unito ha il più alto numero di occupati nell’industria dell’auto a livello europeo, ma nessun azionista dominante britannico.



Il problema non è tanto l’allocazione dei diritti di proprietà. Il problema è la loro allocazione strategica nella governance per un lungo periodo di tempo in modo tale da segnare i destini dell’impresa. Oppure, se tutto ciò non è presente, il problema è di assegnare questo ruolo alla mano pubblica quando sono in gioco asset strategici come le reti materiali e immateriali. Lo Stato imprenditore è stato dichiarato morto, ma in effetti in ogni dove nel mondo esso risorge se si vuole mantenere o porre mano alla crescita in presenza di diritti di proprietà assenteisti, ossia che non sanno o non vogliono esercitare un ruolo di guida sugli asset produttivi, innovativi, strategici.



L’Italia è un caso da manuale. Una grande società pubblica cinese entra nel tempio del liberismo italico acquistando la proprietà e il controllo nel lungo periodo della Pirelli, seguendo una strategia di dominio più militar-diplomatico che economico, visto il basso livello economicamente strategico della Pirelli medesima se si considerano i suoi asset secondo una visione mondiale e non tisicamente provinciale. I cinesi posseggono già quote importanti di reti strategiche italiane, ciò che in ogni altro Stato del mondo, a cominciare dal Regno Unito, nessun governo di qualsivoglia parte politica avrebbe reso possibile. Il silenzio della politica dinanzi a simili avvenimenti è assordante. Di più: è una politica industriale a rovescio. Tutto è politica industriale, anche il non fare.



In questo modo, con la decapitazione del controllo nazionale di gran parte delle nostre grandi aziende, la potenza della Nazione è messa in discussione. Le piccole e medie imprese possono assicurare il benessere con l’occupazione e la crescita locale, ma non potranno mai dare all’Italia la potenza perduta, ossia il ruolo di media potenza regionale che un tempo possedevamo e che ora non possediamo più, come dimostra la nostra assenza dal grande dibattito strategico militare internazionale. Abbiamo ripreso un ruolo mediterraneo grazie al dinamismo intelligente del governo Renzi, con l’intervento verso l’Egitto, la Tunisia e la Libia. Ma mentre così si opera in politica estera, in politica economica si agisce precostituendo, anzi continuando, una politica di decadenza economica che pone le basi per indebolirlo e non rafforzarlo, quel ruolo, di là di ogni dichiarazione.



Il fatto poi, che in questi anni una struttura da ircocervo come la Cassa depositi e prestiti abbia aumentato in modo esagerato il suo potere senza dibattito alcuno, senza indicazioni programmatiche chiare, aumenta lo sconcerto e il senso di deprivazione facendo piombare il Paese in una oscura caverna in cui le mire di un surrogato dello Stato imprenditore non solo non sono dichiarate, ma implementano scelte non di attivazione dell’allocazione virtuosa dei diritti di proprietà, ma invece di sradicamento e di indebolimento, a fronte di incognite finanziarie di sostenibilità che inquietano se si pensa che in gioco c’è una parte del risparmio postale.



Di fronte ai casi come la Pirelli, vale però domandarsi a che serva il Fondo Strategico tanto pomposamente annunciato dalla menzionata Cassa depositi e prestiti. Finalmente voci indipendenti e preoccupate si levano, ma mi pare poco ascoltate, poco comprese, a fronte di una pervicace aggressività polemica che non rassicura. Insomma, la politica economica si deve fare con la mossa doppia del cavallo. Un buon ambiente giuridico, fiscale e di trasparenza da un lato; un intervento della mano pubblica laddove quella privata non giunge e non può più giungere per limitatezza di mezzi e di pulsioni e di ambizioni dall’altro.



Sempre che si ritenga necessario per la Nazione che di alcune opere e di alcuni investimenti si abbia necessità. C’è solo l’imbarazzo della scelta: a cominciare dalla difesa anche offensiva dei nostri confini, in un mare che si farà sempre meno sicuro; per continuare con le reti materiali e immateriali dove il privato va integrato con lo Stato per conseguire un allineamento tecnologico sempre più impellente dinanzi ai pericoli di una tensione internazionale crescente. La Cina è un protagonista di questa tensione, giungendo sino a insidiare l’Occidente in quel di Londra, con la Banca delle Infrastrutture dai cinesi che sfida il volere americano in un contesto che è ormai chiaramente di divisione strategica tra le due architravi del potere mondiale non asiatico.



Da questa divisione, se non sarà presto superata, non potranno che scaturire disastri per tutto il mondo. L’Europa fatica ancora stretta tra deflazione e depressione. Non stupisce, nel quadro sin qui tratteggiato, che il debito greco in scadenza imminente, su cui la Germania e gli altri Stati europei tergiversano irresponsabilmente, sia circa il doppio del bonus da stock option in varie forme pagato recentemente a un altissimo dirigente di Pharmacyclis, che è stata venduta al colosso delle biotecnologie AbbVie: il Financial Times annuncia in prima pagina che il fortunato e voracissimo top manager riceverà 3,5 miliardi di dollari.



Davvero meritava tanto quel signore? Sopportiamo simili mostruosità mentre non una voce, in questo deserto manifatturiero da grande dimensione incipiente, si leva in Italia per porre le basi per iniziare una nuova via, diversa da quella del blairismo e del clintonismo perseguita in questi anni e che ci ha condotti alla recessione e alla deindustrializzazione e alla crisi finanziaria e alla disoccupazione e a tutte le altre malattie sociali che ci hanno aggredito. Che si pensi di affrontare questa epidemia con l’ircocervo di entità indistinta (la citata Cdp) e perciò incontrollabile nel teatro delle ombre cinesi del potere, è un fatto di cui la storia ci chiederà conto.