Air France e dintorni/ Cosa è in gioco nella battaglia sui salari di produttività

di Oscar Giannino
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Martedì 6 Ottobre 2015, 23:22 - Ultimo aggiornamento: 23:52
Il fronte dei rinnovi contrattuali privati in Italia è da ieri ufficialmente rotto. Proprio mentre i lavoratori dell’Air France che fanno irruzione nella sede della compagnia a Roissy e tentano di linciare i manager provocano un’eco a cascata anche in Italia. In Francia, in questi anni di crisi, non è la prima volta che succede: ci sono stati anche sequestri di manager di aziende in crisi, costretti a barricarsi per mezze giornate nelle loro sedi, per uscirne solo sotto la protezione della forza pubblica. In Italia, che pure negli anni di crisi ha perso 9 punti di Pil, con una falcidia di imprese e oltre 3 milioni di disoccupati, queste cose non sono accadute. E la domanda di tutti, rimbalzata sui media, è diventata: perché da noi no? Si può rispondere come ha fatto il leader della Fiom, Landini, subito pronto a promettere l’occupazione delle fabbriche. Oppure ragionare sulla nostra diversa storia nazionale e sindacale, rispetto alla Francia. E capire che oggi più che mai - con una trentina di contratti di lavoro privati in scadenza, che riguardano milioni di lavoratori e il nodo centrale irrisolto della produttività - di tutto c’è bisogno tranne che di evocare tensioni, e addirittura violenze su persone e impianti. La storia conta e pesa, eccome. Il sindacato e la sinistra italiana, nel secondo dopoguerra, hanno dato vita anche a grandissimi moti di protesta, a cominciare dall’autunno caldo del 1969.



E proseguendo durante tutti gli anni Settanta, per continuare poi con imponenti manifestazioni di piazza e scioperi generali. Ma se violenze sistematiche ed eclatanti non hanno fatto parte del corredo genetico del sindacalismo italiano nella storia della Repubblica, c’è una ragione. Anzi ce ne sono quattro. Si chiamano 1914, 1919, Pci e terrorismo. Premessa: dal penultimo decennio del XIX secolo fino al fascismo, l’ala del sindacalismo rivoluzionario batteva ai congressi socialisti una volta sì a una no, anzi due su tre, i riformisti di Turati, accusati alla fine di essere troppo gradualisti e filo giolittiani. Ma la settimana rossa del giugno 1914, protagonisti in Romagna e nelle Marche i sindacalisti rivoluzionari Petro Nenni ed Errico Malatesta, finì in un bagno di sangue e nella vittoria successiva degli interventisti sul tema della guerra.



Sull’onda della rivoluzione sovietica, le grandi occupazioni delle fabbriche e gli scioperi generali del 1919-20, talora anche molto violenti, regalarono al fascismo borghesi, industriali e latifondisti. Dopo la liberazione, imparata la lezione, il Pci inquadrò ferreamente la Cgil perché non ci fosse nessuna violenta fuga avventurista, né in avanti né a sinistra, senza alcuna deviazione dalla linea del partito. Il “Piano del lavoro” di Di Vittorio era una grande strategia nazionale di crescita e seduzione interclassista, strizzando l’occhiolino a chi comunista e stalinista non era.



Infine, quando negli anni ’70 arrivò la violenza prima e il fiancheggiamento poi alle Br nelle fabbriche, dopo qualche esitazione Pci e Cgil, avvenuto l’assassinio a Genova per mano Br di Guido Rossa, si schierarono per la libertà e la democrazia. E a Torino chiesero nelle fabbriche agli iscritti di fare i nomi dei violenti, con qualche dirigente comunista e del sindacato costretto a farsi proteggere dai carabinieri. Fu Luciano Lama in persona a chiedere a Romiti di buttar fuori dall’azienda i violenti.



È una grande storia di responsabilità nazionale quella del no alla violenza. Al sindacato va riconosciuta integralmente, per quanto dura possa essere la critica nel merito delle sue scelte. Ha contribuito a preservare l’Italia all’indomani dell’attentato a Togliatti, come ai tempi della strategia della tensione e degli assassini di politici, magistrati, poliziotti e giuslavoristi, fino a pochissimi anni fa. La Francia vive invece ancora del mito rivoluzionario, delle giornate della Comune di Parigi del 1870, del Fronte Popolare guidato da Leon Blum negli anni Trenta. La nostra storia è diversa.



Due sole volte nel dopoguerra è capitato che alla Fiat si potessero produrre eventi eclatanti. Ma in entrambi i casi erano dirigenti del Pci, e non sindacali, a minacciarli. La prima, nei giorni della Liberazione, quando Pajetta e altri si presentarono armati dall’allora capo della Fiat, Valletta, minacciandone l’arresto. La seconda quando fu Enrico Berlinguer, davanti ai cancelli Fiat, a dirsi pronto a occuparla. E fu sconfitta sonora, con la marcia dei quarantamila guidati da Luigi Arisio, alla testa di coloro che volevano invece lavorare. Di tutto questo bisogna ricordarsi, ora che milioni di dipendenti privati resteranno senza contratti. Il dado è tratto: ieri il presidente di Confindustria ha preso atto che la riforma del modello contrattuale coi sindacati non fa un passo avanti. La Cgil si era tirata indietro a settembre.



Squinzi ha provato a snidare la Camusso in privato, lei si è negata, messa in difficoltà dalle fughe in avanti della Uil di Barbagallo. A questo punto Squinzi, a una quarantina di direttori delle grandi associazioni territoriali e di categoria di Confindustria, ha ieri chiarito che non c’è modo di poter rinnovare i contratti in scadenza con le vecchie modalità. E ha aperto a un intervento del governo. Il nodo è noto. In questi anni la deflazione, rispetto al meccanismo di recupero dell’inflazione presente nei vecchi contratti, ha portato nelle tasche dei dipendenti molti più euro dell’inflazione reale. Bisogna dunque cambiare il metodo per tutelare il potere d’acquisto dei salari, stabilire un minimo retributivo di categoria nei contratti nazionali, e larga parte della retribuzione deciderla invece nei contratti di produttività aziendali di filiera territoriale.



La Cisl ci sta. La Uil vuole contratti col vecchio sistema, o con uno nuovo ancor più tutelante. La Cgil non vuole sentir parlare di una parte rilevante del salario nei contratti di secondo livello. La manifattura italiana ha perso 37 punti di costo del lavoro per unità di prodotto rispetto alla manifattura tedesca, dal 2000 ad oggi. Legare gli andamenti salariali al recupero di produttività non è solo un modo per coniugare insieme più salario ai dipendenti e più margini per le imprese, è una vera e propria priorità nazionale. Nel Jobs Act il governo - anche con l’ok di di Confindustria per non far imbestialire i sindacati - si era fermato all’idea di un salario minimo solo per i lavoratori non coperti da contrattazione nazionale. Ma ora che l’intesa per un nuovo salario di produttività è bloccata, delle due l’una. O interviene il governo, e il sindacato insorge.



Oppure si rompe il fronte di Confindustria, come spera il sindacato confidando nel fatto che nel settore chimico e degli alimentaristi il rapporto di collaborazione con le imprese sia storicamente collaudato.
Alle imprese, a ripresa iniziata, la conflittualità non può piacere. Ma non dimenticate che tra le decine di contratti da rinnovare c’è quello del milione e 600 mila metalmeccanici. E sarebbe veramente dura, per le imprese di Federmeccanica, firmare rompendo la linea nazionale di Confindustria con la Fiom, che di contratti non ne ha sottoscritti già due.